giovedì 11 settembre 2008

Auguri per il Ramadan - comunicato stampa

Art. 8 della Costituzione della Repubblica Italiana

"Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.
Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze"

Art. 19 della Costituzione della repubblica Italiana

"Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume."


ALLE DONNE E AGLI UOMINI
DI FEDE MUSULMANA

ANCHE QUEST’ANNO AUGURIAMO
BUON RAMADAN

Speriamo e auguriamo
che nel 2008
finalmente
dopo anni di attesa
di impegno
di promesse
la comunità musulmana di Cesena
come e’ suo diritto
riconosciuto dalla Costituzione
possa avere
un luogo degno e adatto
per incontrarsi
e per pregare

Gruppo “Convivialità delle Culture” - Cesena
Gruppo “G. Falcone e P. Borsellino” - Cesena
Gruppo “Ricerca e Confronti”- Cesena
Associazione culturale “Il Castello” - Sorrivoli
Università della Pace “Ernesto Balducci”- Cesena
Comitato Cesenate per la Costituzione


Cesena, tempo di Ramadan, settembre 2008

5 commenti:

MisterTone ha detto...

MOSCHEE, SFIDA ALLA COSTITUZIONE

Valerio Onida

Il Sole 24 Ore, 24-8-2008

La garanzia del libero esercizio della libertà religiosa per tutti, e
in particolare per le minoranze è, nella storia contemporanea, un
connotato cruciale e decisivo dell'ordinamento, che ne attesta
l'aderenza o meno ai principi ispiratori del costituzionalismo. Una
delle "quattro libertà" le "essenziali libertà umane" sulle quali, nel
celebre discorso del Presidente Roosevelt (7 gennaio 1940 si affermava
che avrebbe dovuto fondarsi il mondo «che noi cerchiamo di rendere
sicuro»: libertà di parola e di espressione, libertà di religione,
libertà dal bisogno, libertà dalla paura - era proprio la "freedom of
every person to worship God in his own way - everywhere in the world".
Coerentemente, l'articolo 18 della Dichiarazione universale dei
diritti dell'uomo afferma che «ogni individuo ha il diritto alla
libertà di pensiero, di coscienza e di religione», e che «tale diritto
include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di
manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato,
la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle
pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti». Non diversamente,
l'articolo 19 della Costituzione italiana garantisce a "tutti" il
«diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in
qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di
esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di
riti contrari al buon costume». A sua volta l'articolo 9 della
Convenzione europea dei diritti proclama che «la libertà di
manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere
oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla
legge e costituiscono misure necessarie, in una società democratica,
per la pubblica sicurezza, la protezione dell'ordine, della salute o
della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà
altrui». Che vuol dire, secondo la interpretazione della Corte di
Strasburgo, che l'esercizio dei diritti fondamentali della persona può
essere ristretto solo nella misura indispensabile, secondo un criterio
di proporzionalità, a tutelare quegli interessi.

Tali affermazioni dovrebbero suonare come ovvie all'orecchio delle
persone del nostro tempo e dei nostri paesi, usciti da un lungo e
tormentato cammino che dovrebbe aver portato a considerarle come una
conquista definitiva e irreversibile.

Ma esse sembrano ignorate o sottovalutate dai proponenti
dell'annunciato progetto di legge leghista che vorrebbe - a quanto si
è letto - imporre una serie di limitazioni alla apertura e al
funzionamento in Italia di moschee. Il contrasto con i principi
costituzionali è stridente, per ragioni di metodo e procedura come per
ragioni di merito.

Sul piano procedurale, è inimmaginabile che una legge dello Stato
pretenda di regolare l'apertura dei luoghi di culto e l'esercizio
dell'attività dei ministri di culto, non in generale ma con riguardo
ad una specifica minoranza religiosa, senza ricorrere alla previa
stipulazione delle intese con i suoi rappresentanti cui l'articolo 8
della Costituzione condiziona la disciplina dei rapporti fra lo Stato
medesimo e le confessioni religiose. Ed è egualmente implausibile che
la legge affidi alle Regioni valutazioni discrezionali (su "dimensioni
e impatto delle moschee") quando la Costituzione riserva
esclusivamente allo Stato la competenza a disciplinare i «rapporti fra
la Repubblica e le confessioni religiose» (articolo 7, secondo comma,
lettera c).

Nel merito, trascuriamo alcune previsioni francamente ridicole, come
il divieto di costruire minareti (siamo tornati alla gara fra
campanili a chi è più alto?) o il divieto di aprire moschee a meno di
un chilometro da una chiesa (quasi che fosse da evitare la vicinanza
fisica fra credenti di diverse religioni! Per fortuna non mancano
uomini di chiesa i quali, assai più saggiamente e umanamente, arrivano
anche a prestare i luoghi del loro culto per l'uso dei fedeli di altre
religioni!).

Altri propositi, se attuati, si tradurrebbero nella negazione di
garanzie elementari di libertà e di eguaglianza. Così si pretenderebbe
di imporre l'uso della lingua italiana nella predicazione, quando è
ovvio che non si possa imporre la lingua del culto né la lingua della
manifestazione del pensiero in riunioni lecite; o di vietare attività
di istruzione, violando così ad un tempo la libertà religiosa e la
libertà di insegnamento. Ancora, si vorrebbe negare ogni contributo
pubblico, là dove la Corte costituzionale ha sancìto il principio che,
se la legge prevede contributi pubblici per la costruzione di edifici
di culto, essi devono essere attribuiti senza discriminazioni, in
rapporto alle effettive esigenze della popolazione, anche alle
confessioni richiedenti, prive di intesa con lo Stato (sentenze n.
195/1993, n. 346/2002).

Soprattutto grave la proposta di condizionare la costruzione di
moschee ad una approvazione popolare mediante referendum locale. È di
solare evidenza che non si può condizionare l'esercizio della libertà
di culto di una minoranza al consenso della maggioranza dei cittadini
residenti. Anzi, un referendum locale che abbia ad oggetto non già
scelte urbanistiche del Comune, ma l'autorizzazione o meno a costruire
un edificio di culto in quanto tale, è da ritenersi costituzionalmente
inammissibile, poiché contrasterebbe con l'imperativo costituzionale
che attribuisce i diritti fondamentali a tutti e tutela le minoranze.
Vi sono argomenti - e uno di questi è proprio il riconoscimento dei
diritti di libertà - su cui non si può votare: è un elementare
principio "liberale" quello per cui i diritti devono essere garantiti
a tutti indipendentemente e anche contro la volontà della maggioranza.
È poi appena il caso di aggiungere che tutto ciò non ha niente a che
vedere con le esigenze di tutela nei confronti di eventuali pericoli
di attività sovversive dell'ordine pubblico, che devono essere
prevenute e represse con i mezzi ordinari nei confronti di chiunque,
anche se cercasse di ripararsi all'ombra di una moschea o di una chiesa.

L'attuale maggioranza di governo si proclama "liberale" e non manca di
denunciare il carattere illiberale e inaccettabile di regimi che non
distinguo¬no fra fede e politica e non riconoscono la libertà
religiosa al loro interno, come certe monarchie o repubbliche
islamiche. Vedremo quanto saprà avvenire la contraddizione fra questi
atteggiamenti e le tentazioni, emergenti al suo interno, di inseguire
i regimi fondamentalisti sul loro stesso terreno, risuscitando
l'antico e non certo liberale, né democratico, né costituzionalmente
accettabile, principio "cuius regio, ejus religio": ossia, se ti trovi
in un territorio ove domina una confessione, devi aderire ad essa o
devi andartene, ovvero devi accettare di vivere in uno stato di
restrizione dei tuoi diritti fondamentali. Ne va di mezzo la
salvaguardia del livello elementare della nostra civiltà giuridica.

LA PROPOSTA LEGHISTA

Il testo che vuole imporre limiti ai luoghi di culto viola l'articolo
19 della Carta e la Convenzione europea

IL REFERENDUM LOCALE

Sul riconoscimento dei diritti di libertà non si può votare: questo è
un elementare principio liberale

Mercuzio ha detto...

Secondo le Nazioni Unite nel mondo musulmano ci sono 60 milioni di “spose bambine”, la cui età è inferiore ai 13 anni. Il marito è sempre un uomo molto più anziano, mai incontrato prima, spesso un parente. Non è più tollerabile oltre il continuo silenzio delle comunità musulmane occidentali rispetto ai crimini perpetrati.
Non è più tollerabile oltre l’omertà che avvolge in modo mafioso i centinaia di centri culturali islamici delle città libere d’Occidente che si guardano bene dal denunciare e condannare certa cultura barbarica in cui vivono molti Stati musulmani.
Ecco invece cosa dice in una intervista l’ambasciatore saudita in Gran Bretagna, Ghazi Al-Qusaibi,: «Flagellazione, lapidazione e amputazioni sono, agli occhi musulmani, il nocciolo della fede», e «la cultura occidentale è ridicola, è una cultura perversa e inferiore». …Da nessuna parte nel mondo islamico si è mai levata chiara, forte e continua alcuna voce di condanna contro le crudeltà primitive di cui è permeata certa cultura musulmana. Né negli Stati islamici né in quelli occidentali, né fra autorevoli mullah in terra d’Africa né fra i predicatori nelle moschee occidentali. Un silenzio di tomba, un silenzio che smaschera l’assenza d’ogni valore religioso e umano di certe tradizioni spacciate per coraniche, e ne svela l’unico carattere: il peggior maschilismo retrogrado e oscurantista chiamato a proteggere il potere maschile delle società musulmane…mentre la nostra “liberalissima” civiltà ci scodella queste sentenza…Egiziano minaccia e picchia italiano. Il tribunale "E' la sua cultura"…E' successo a L'Aquila, un giovane italiano é stato minacciato e picchiato da un egiziano, per aver parlato con la moglie, dopo il fatto é scattata subito la querela. il processo, un lungo iter durato tre anni… la sentenza scioccante, incredibile, ha trovato attenuanti alla violenza dell'egiziano perchè influenzato dalla "cultura" del suo paese di provenienza: "Si ritiene di non poter prescindere dalla personalità dell'imputato, influenzata dalla cultura del suo paese d'orgine, il Cairo, e per tanto, si ritiene di applicare l'attenuante della provocazione". Il ragazzo ha "provocato" l'egiziano, a quanto pare"integrato", con moglie e figlie, perchè interpellato da lui per una perdita nel bagno, é sceso a constatare il guasto e in mancanza del marito, ha "osato" parlare con la moglie da solo.
Un paio di giorni dopo é stato richiamato dall'egiziano ed é sceso, a quel punto é stato picchiato selvaggiamente e minacciato di morte.
E' questa la giustizia?
Ma perché ci vogliamo così male?

MisterTone ha detto...

Tutti i casi di violenza sono condannati dalla nostra Costituzione, che essendo "daltonica" in fatto di fede non distingue i buoni o cattivi sulla base del credo religioso ma solamente sulla base delle loro azioni. Non esistono religione violente e religioni buone, ma esistono fedeli cattivi e fedeli rispettosi delle leggi civili. A scanso di equivoci, nessuno intende dire che i reati non vadano puniti, ma nel momento in cui una persona commette un reato non gli si chiede di quale nazionalità, etnia o religione appartenga … la violenza non ha colori o bandiere, è solamente violenza che va combattuta attraverso gli strumenti dello Stato. Il problema semmai è sugli errori “umani” nell’utilizzo di questi strumenti (sì lo so, a volte sono errori anche disumani…).
Noi italiani continuiamo a farci del male perché viviamo l'identità religiosa come il tifo allo stadio: ultras esagitati e sempre della stessa “curva” (sempre gli “altri” però…) che commettono violenze e non sono mai perseguiti. È un problema politico non identitario, ma fino a quando la politica cavalcherà campagne medianiche dell’isteria xenofoba e del razzismo diffuso diventando un ceto imprenditore di paure e pregiudizi (o al contrario di non vedere “mai” i problemi "vicini" nati con l’immigrazione e di pensare solo a problemi a migliaia di km dall’Italia), allora ci si trincererà sempre dietro l’opportunità di rispondere in ogni modo all’insicurezza “percepita” (confondendo dati statistici e singoli casi) invece di analizzare in tutte le sue sfaccettature i vari problemi della società italiana.

MisterTone ha detto...

"Gli dicevo: non temere, sei italiano l'hanno abbattuto come una bestia"

Non fumava, non beveva. La sua vita era divisa tra hip hop e lavori saltuari

di PIERO COLAPRICO e FRANCO VANNI
da www.repubblica.it

MILANO - Il sussurro della "salat el mout", la preghiera islamica della morte, si propaga sin nelle scale di questo palazzone di Cernusco sul Naviglio. La fede aiuta, anche se le lacrime non se ne vanno: "Speriamo che qualcuno ci aiuti davvero a capire", ripetono gli amici, anche se capire questa Milano insanguinata non è facile. Abdoul detto Abba non aveva neanche diciannove anni ed è morto a bastonate, sotto il cielo grigio e piovoso di ieri mattina, al termine di una notte passata a sentire hip hop, e a muoversi in tram, in un lungo sabato senza ansie, con gli amici al fianco e la musica in testa.

Poi quel bar aperto e deserto. L'idea di prendere una scatola di biscotti chissà di chi è stata, ma è lui che la paga cara. I baristi, padre e figlio, scaricavano un furgone. L'hanno inseguito e raggiunto, avevano le spranghe. Hanno lasciato sull'asfalto lo "sporco negro" che sanguina dalla testa. Lo vedono là rannicchiato sull'asfalto e girano le spalle. Chiudono la saracinesca. E se ne vanno a casa.

"Sì, siamo stati noi", diranno nel pomeriggio di ieri, quando vengono rintracciati dai poliziotti della squadra Volante. Hanno avuto i loro nomi grazie ai vicini del bar, persone che si sono svegliate per le grida, gli insulti, le botte, le sirene. Per quei due baristi, con qualche piccolo problema giudiziario alle spalle, che alle 6.30 si sono trasformati in assassini.

Via Zuretti non è l'Alabama degli anni Sessanta, Milano non è una metropoli con i quartieri ghetto dove la polizia non entra e Abdoul, detto Abba, tutto era, meno che un criminale. Non lo dicono gli amici, lo raccontano le cose e le persone che si vedono là dove abitava questo ragazzo dall'"eterno sorriso". A cominciare dal padre, un operaio corpulento, in tuta blu anche di domenica, mentre la casa - stanno all'ultimo e ottavo piano - si riempie di gente, con le donne in cucina, gli uomini in salotto, dove campeggiano gli arazzi dorati con la Mecca. Invece, dove dormiva il ragazzo, ci sono i poster: quello grande di "50 cent", il rapper nero, scoperto e lanciato da Eminem, il rapper bianco, e poi ecco la foto del neo-milanista, il Ronaldinho con le treccine.

Religione e sport, tradizione e vita moderna, tutto si fonde guardando la mano callosa del padre, il signor Assane Guiebre, 53 anni, dalla quale scivola via la manina di un bimbo di cinque anni, l'ultimo nato in questa famiglia con cinque figli. Un bimbo che amava quel fratello maggiore estroverso, mai stanco quando c'era da giocare. Se il piccolo è senza parole, il padre ne è prodigo: "Chiedo al sindaco Letizia Moratti di organizzare i funerali di mio figlio, di trasformarli in una manifestazione sulla sicurezza, perché Milano non è una città sicura se dei ragazzi di diciannove anni vengono abbattuti come animali. Bianchi o neri non importa, quello che importa è che in questa città si possa vivere. Chiedo allo Stato, a Berlusconi, a Bossi di spiegare agli italiani che gli stranieri non sono delinquenti, perché qualcuno fa presto a prendersela con noi".

Tiene i nervi saldi, questo padre: "Mio figlio - ripete - era bravo, lo dico io, ma chiedete in giro, a chiunque. Anche l'ultimo mio bambino sarà educato come ho educato gli altri, come ho fatto con Abba. Gli dicevo di non avere paura. "Non farti spaventare, sei italiano", ma bisogna rispettare per primi se si vuole essere rispettati, anche al piccolo dirò lo stesso".

Forse qualche milanese vedendo la foto di Abba lo riconoscerà. Se ne stava talvolta al "muretto del Duomo", nella zona pedonale di corso Vittorio Emanuele dove si concentrano alcuni rapper nostrani. Scuola media, due anni al Cfp comunale di Gorgonzola, poi l'iscrizione a un'agenzia di lavoro interinale, tanti lavori e lavoretti, le difficoltà di tantissimi ragazzi: "Io ero un uomo-macchina, andavo al lavoro tornavo a casa, anni e anni sempre così, è stata questa la mia vita. Sono da trent'anni in Italia, sono tra i primi ad essere arrivato, lavoro in una fabbrica di ascensori, la Siag qua a Cernusco e il 23 luglio mi sono fatto male. Sono del Burkina Faso, di un posto chiamato Gnagho, ma mio figlio - dice papà Assane - è italiano. Ed era giovane, qualche volta usciva, ma non fumava, non beveva, aveva una ragazza. E sapete - chiede scuotendo la testa - di che cosa abbiamo parlato alle 23, l'ultima volta che l'ho visto? Di lavoro. Di che cosa avrebbe dovuto combinare... ", in un mondo confuso, che per questa famiglia, e anche per gli assassini di un ragazzo nero che amava il rap, non sarà mai più quello di prima: "Per la prima volta - dice una sorella - ci siamo accorti di essere negri".

Mercuzio ha detto...

Colonia, scoppia il caso della moschea e dell'integrazione che non c'è.

Il via libera definitivo è stato dato lo scorso 30 agosto dal Consiglio comunale di Colonia (favorevoli la SPD, la Linke, la FDP e i Grünen, contrari la CDU e la lista civica “Pro Köln”): la grande moschea prevista nel quartiere di Ehrenfeld si potrà fare. Sono passati sei anni dal momento in cui il progetto mosse i primi passi. Firmato dall’architetto tedesco Paul Böhm, esso prevede la cupola più alta dell’altezza di 34,50 metri e due minareti di 55 metri ciascuno per un costo di circa 25 milioni di euro. Un edificio imponente. Non è un caso dunque che i problemi posti fin all’inizio dai residenti tedeschi del quartiere fossero legati anzitutto alle sue dimensioni. Il movimento anti-grande moschea è cresciuto tra i cittadini di Colonia fino a diventare un partito politico, il cirato “Pro Köln” (www.pro-koeln-online.de), che alle comunali del 2004 ha ottenuto il 4,7%. Un partito che con la manifestazione “anti-islam” prevista a Colonia per i prossimi 19 e 20 settembre. Il dinamismo degli appartenenti a “Pro Köln”, unitamente alla oggettivamente dubbia necessità di una moschea di quelle dimensioni, ha permesso fino a qualche tempo fa al movimento di incassare il consenso, oltre che di una buona fetta di cittadini di Colonia, da parte di personalità che nulla hanno a che fare con la cultura estremistica. Su tutti lo scrittore Ralph Giordano. L’ebreo-italo-tedesco sopravvissuto ai campi di concentramento, che pure ora ha preso le distanze dalla prossima manifestazione, avrebbe dovuto tenere l’ennesimo discorso contro l’edificazione della grande moschea nel corso di una manifestazione pubblica prevista a Colonia esattamente un anno fa, l’11 settembre 2007. Per motivi di sicurezza pubblica quella manifestazione non venne autorizzata e Giordano decise di pubblicare il proprio intervento sulla rivista “Cicero”, col titolo "Il problema non è la moschea ma l’islam": un lucido atto d’accusa verso i politici tedeschi, responsabili di sottacere il problema del rapporto tra una maggioranza cristiana e una minoranza musulmana (principalmente turca), ma anche la denuncia di una debacle: “L’integrazione è fallita!”.
Basta guardare i giovani turchi, suggeriva Giordano. Rappresentano la terza generazione e, nonostante tutti gli sforzi, “il 40% di loro ha limitate conoscenze linguistiche del tedesco, non possiede un titolo di studio e dunque risulta confinato ai margini della società e del mondo del lavoro.” E dall’anno scorso la situazione non è certo migliorata. Il riferimento ai turchi-tedeschi aiuta ad andare al cuore del problema. Non è un caso infatti che promotrice e futura proprietaria della grande moschea sia la Ditib (Unione Turco-Islamica per la Promozione della Religione), una realtà legata direttamente al governo di Ankara (sarebbe da chiedersi come mai questo dato non secondario sia stato ignorato nel pur elaborato articolo apparso sul “Corriere della Sera” del 9 agosto scorso…). Parole ancor più dure rispetto a quelle pur chiare di Giordano (“la grande moschea è una dichiarazione di guerra da parte di chi è nemico dell’integrazione”) erano venute da Necla Kelek, sociologa e collaboratrice della Frankfurter Allgemeine d’origine turca: “La grande moschea di Colonia non c’entra nulla con la libertà religiosa: è un’espressione politica dell’islam turco”, scrisse un anno fa sulla FAZ, “l’architettura parla alla pari del chador. Il progetto richiama espressamente l’ex-Basilica di Santa Sofia di Istanbul, a suo tempo occupata e trasformata in moschea dagli Osmani. Proporre quel modello significa dire: ecco, siamo arrivati fin qui.” La Kelek aveva espresso idee piuttosto chiare anche su che cosa sia una moschea: “Non può essere posta sullo stesso piano di una chiesa cristiana o di una sinagoga. Nella moschea si insegna la sottomissione alla collettività, all’imam, non a Dio. Al suo interno di educano schiavi, non uomini.”

Per quale motivo la Ditib, promotrice della costruzione della grande moschea, non dimostra alcun tipo di sostegno ai cristiani di Turchia, cui viene costantemente impedito di costruire chiese, anche di piccole dimensioni?
Forse perché come dice l’ambasciatore saudita Ghazi Al-Qusaibi in Gran Bretagna in una intervista: «Flagellazione, lapidazione e amputazioni sono, agli occhi musulmani, il nocciolo della fede», e «la cultura occidentale è ridicola, è una cultura perversa e inferiore»…e noi li lasciamo fare? Perché?