venerdì 12 dicembre 2008

"La Carta non è strumento di potere così Berlusconi torna a Cromwell"



A Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista e presidente emerito della Corte costituzionale, Repubblica chiede di riflettere ad alta voce sul significato e il valore dell'annuncio di Silvio Berlusconi: il premier vuole riformare, con la sua sola maggioranza, il Consiglio superiore della magistratura; separare in due diversi ordini la magistratura giudicante dalla requirente (i pubblici ministeri); un referendum popolare dovrebbe poi confermare entro tre mesi il disegno.

"Prima di discutere il merito - dice Zagrebelsky - qualcosa va detto sulle riforme mancate, sulle colpe, le responsabilità dei riformatori finora mancati. Mi definisco un conservatore costituzionale. Penso che il lavoro compiuto all'inizio di un ciclo politico sia sempre più apprezzabile, migliore, di un'attività in corso d'opera. E tuttavia non è che non veda come un grave deficit non aver adeguato i meccanismi di garanzia della Costituzione alle trasformazioni del sistema politico. Ne è un esempio proprio l'articolo 138...".

L'art. 138 della Costituzione regola le leggi di revisione della Costituzione.
"Appunto, l'art. 138 prevede che le riforme costituzionali debbano essere approvate con un ampio consenso raccogliendo il voto della maggioranza e di una parte dell'opposizione".

Qual era il significato di questo consenso qualificato?
"Che la Costituzione, la sua manutenzione, le sue modifiche non dovessero essere appannaggio della pura maggioranza. Poi però le leggi elettorali hanno cambiato il sistema politico, polarizzandolo su due sponde e ora chi ha il sopravvento nella competizione elettorale e conquista la maggioranza si fa da sé le riforme costituzionali".

Salvo poi sottoporle a referendum popolare, come ha ricordato Berlusconi.
"Berlusconi ha fatto un discorso piano. Prende atto della disciplina costituzionale, si fa votare la sua riforma con la maggioranza che il sistema elettorale attuale gli ha dato, chiede al referendum l'approvazione definitiva. Anche se ineccepibile, però, questo metodo cambia profondamente l'essenza stessa della Costituzione".

Perché, se quel metodo è previsto dalla stessa Costituzione?
"Perché ci sono due nozioni di Costituzione. La prima considera la Costituzione come strumento di chi governa. Per Cromwell, la Costituzione, è appunto Instrument of Government. Siamo qui alla presenza di Platone, Aristotele, Hobbes, Schmitt. Per venire al presente o al passato prossimo, non c'è in Sud America vincitore di elezioni, capo-popolo o colonnello, che non abbia e annunci un suo progetto costituzionale: è lo strumento di cui intende servirsi per esercitare il potere".

Qual è la seconda nozione?
"E' la nostra. Qui il riferimento è John Locke. La Costituzione è inclusiva. Non è scritta da chi vince contro gli sconfitti. La Costituzione non si occupa di chi sia il vincitore. Scrive principi per tutti, garantisce i diritti di tutti. Noi siamo figli di questo costituzionalismo. La nostra Carta fondamentale è nata con la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo delle Nazioni Unite del 1948, con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà del 1950. La Costituzione italiana si colloca in questa tradizione. E' nata per essere inclusiva, per valere per tutti. Non è uno strumento di potere ma di garanzia contro gli abusi del potere. Berlusconi invece vuole fare il Cromwell. Può essere ancora più chiaro se ritorniamo al 138. Quell'articolo prevede che anche un accordo politico ampio possa essere bocciato da una minoranza del corpo elettorale. Come si sa, il referendum costituzionale non ha il quorum e, se vanno a votare il 20 per cento degli italiani, l'11 per cento può bocciare la nuova legge. Il progetto di Berlusconi capovolge questa logica. Non riconosce al referendum un potere distruttivo, ma pretende che sia confermativo della riforma votata soltanto dalla coalizione di governo. Diciamo che la manovra, di tipo demagogico, manomette la Costituzione, annullando lo spirito di convivenza che la sostiene, e la trasforma in strumento di governo, in strumento di potere".

Si può dire che la riforma annunciata non fa che accentuare quella "china costituzionale" di cui lei spesso ha scritto: indifferenza per l'universalità dei diritti, per la separazione dei poteri, per la dialettica parlamentare, per la legalità.
"Sì. Un regime liberale-democratico adotta come principio ciò che dice l'articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789: "Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione". Una Costituzione che diventa strumento di potere contraddice la separazione dei poteri. E' quel che sta accadendo. Abbiamo già un Parlamento impotente dinanzi a un governo che impone le sue scelte con il voto di fiducia. Ora è il turno della magistratura".

Lei condivide la previsione che la separazione del pubblico ministero dal giudice anticipa la sottomissione della magistratura requirente all'esecutivo?
"Ci sono molti aspetti discutibili nella divisione del Consiglio superiore della magistratura in due, ma uno è chiaro fin d'ora. Se un pubblico ministero non è un magistrato a pieno titolo, che cos'è se non un funzionario dell'esecutivo? E evidente allora che, secondo logica, quel funzionario dovrà dipendere da un'autorità di governo, così pregiudicando l'indipendenza della funzione giudiziaria e cancellando la separazione dei poteri. Mi chiedo: che bisogno c'è?".

E' inutile nascondersi che è lo spettacolo offerto dalla magistratura, con il conflitto tra due procure, ad aprire spazi a questi progetti di riforma.
"Lo spettacolo è sgradevole e la situazione in cui versa la magistratura italiana è certamente insoddisfacente. Ma mi chiedo: le proposte che si avanzano eliminano le difficoltà e i difetti o li aggravano?".

Qual è la sua opinione?
"Per quel che ho letto, dalle inchieste di Catanzaro sono emersi collegamenti della magistratura con ambienti politici, finanziari, malavitosi. La soluzione che propone il governo - l'attrazione del pubblico ministero nell'area della politica governativa - rafforza quei legami e non elimina quindi le cause delle disfunzioni, mentre bisognerebbe lavorare per rendere effettiva l'autonomia della magistratura dai poteri economici, amministrativi, politici e, naturalmente, criminali. Il disegno di riforma, codificando una dipendenza, avrà un solo effetto: eliminerà la notizia di quei legami, non la loro esistenza. Continueranno a esserci, ma non si vedranno".

Quali sono le responsabilità della magistratura in questa crisi?
"Il sistema costituzionale assegna alla magistratura il massimo dell'indipendenza e non sempre questa posizione è stata usata con la responsabilità necessaria. Se le cose funzionano, il merito è della magistratura. Se non funzionano, bisogna dirlo, è della magistratura il demerito".

Quali sono le ragioni o le prassi o le convinzioni che inceppano l'autogoverno della magistratura?
"Non c'è dubbio che la formazione di correnti, che all'inizio è stata favorita da un confronto culturale (culturale era il dibattito su come si dovesse interpretare la Costituzione), ha finito per diventare strumento di promozione e di carriera. E' una degenerazione. Se non hai una corrente alla spalle non assurgi a un incarico direttivo. Solo una corrente può proteggerti quando verrai giudicato per i tuoi errori. Mi sembra che l'autonomia non sia stata gestita nel senso per il quale è stata prevista".

Forse anche per questo è largo il consenso per una riforma.
"Ci sono le istituzioni e gli uomini. La migliore Costituzione può essere corrotta da uomini mediocri. Una mediocre Costituzione può funzionare bene con uomini capaci. Credo che la magistratura debba fare un severo esame su se stessa. Se il sistema non funziona, non ne porta anch'essa la responsabilità?".

Lei crede che questa riforma costituzionale alla fine si farà davvero?
"Si può sperare che nella maggioranza ci sia qualcuno che si renda conto della delicatezza delle questioni. Sono in gioco le garanzie, i diritti, i principi e l'eguaglianza del cittadino di fronte alle legge. Perché se la giustizia è controllata dalla politica, la funzione giudiziaria diventa strumento di lotta politica. Mi appare incredibile che si vada avanti su una strada così pericolosa e non ci siano voci responsabili che denuncino il pericolo, anche all'interno della maggioranza".

Se il governo, come dice Berlusconi, tirasse diritto...
"Siamo in una situazione tristissima. Penso che occorra far breccia nelle convinzioni collettive, spiegare all'opinione pubblica che non si buttano via da un giorno all'altro secoli di storia e di valori civili".

G. D'Avanzo, Repubblica 12 dicembre 2008

lunedì 24 novembre 2008

La nascita della Costituzione

Percorso storico di immagini dedicato alla Nascita della Costituzione Italiana; a cura del Cinecircolo Fuoriquadro

sabato 18 ottobre 2008

Sistema Cosentino



Quattro pentiti accusano: il sottosegretario era al servizio dei boss casalesi. Ecco tutti gli affari del politico di Casal di Principe. Con una holding di famiglia a cui avevano negato il certificato antimafia
Una strada di Casal di Principe
E ora sono quattro. Un poker di pentiti di camorra accusa il sottosegretario all'Economia Nicola Cosentino, nato a Casal di Principe, di avere intessuto un rapporto organico con il clan più pericoloso d'Italia: i casalesi.
L'ultimo verbale è stato depositato il 30 settembre scorso in occasione dell'operazione 'Spartacus 3' della Procura di Napoli, una retata che ha raccolto il plauso del capo dello Stato. Il pentito Domenico Frascogna ha raccontato ai pm che Cosentino è stato il postino dei messaggi del boss Francesco Schiavone, detto Sandokan per una vaga somiglianza con l'eroe salgariano. L'attuale sottosegretario avrebbe trasmesso gli ordini del capoclan, poi condannato a tre ergastoli e decine di anni di galera per reati gravissimi che vanno dall'omicidio all'associazione camorristica.
Pizza e pizzino I fatti narrati si svolgono tra la fine del 1995 e l'inizio del 1996. In quel periodo il boss, che ora è chiuso nel regime di isolamento più duro, è latitante. Cosentino è stato eletto consigliere regionale per Forza Italia con una valanga di voti (in provincia di Caserta una preferenza su tre è sua) e forte di questo bottino sta preparando l'approdo in Parlamento, che gli riuscirà nel 1996. A Casal di Principe Sandokan regna incontrastato e segue gli affari del clan nei rifiuti e nel calcestruzzo grazie a una rete di fiancheggiatori. Secondo il racconto di Frascogna, quando Sandokan vuol far sapere qualcosa ai suoi, si rivolge a Mario Natale, un avvocato proprietario di decine di immobili che circola su una Ferrari 550 Maranello e che è stato arrestato il 30 settembre scorso con l'accusa di essere il cassiere dei casalesi. Frascogna avrebbe visto Cosentino e Natale che andavano a casa di Nicola Panaro (un boss legato a Schiavone arrestato nell'ultimo blitz) per consegnare la lettera del capo. Non basta: il pentito racconta di avere assistito a un incontro a quattro nella sua pizzeria con Cosentino e l'avvocato Natale che consegnavano la solita lettera ai boss Raffaele Diana e Vincenzo Zagaria. Le accuse di Frascogna sono state rilasciate in tempi non sospetti, nel lontano 1998. La Procura le ha ritenute credibili e le ha allegate all'ordinanza di arresto contro i casalesi, ma non si sa ancora se le userà anche nel fascicolo segreto che vede indagato Cosentino.
In realtà il pentito non pronuncia mai il suo nome, ma solo il soprannome di famiglia, ereditato dal padre: 'o Americano'. Forse per questo nessun quotidiano nazionale ha valorizzato la notizia del sottosegretario postino del boss. Eppure i quattro verbali dei collaboratori di giustizia che 'L'espresso' pubblica a pagina 65 disegnano un puzzle davvero inquietante. Vediamo: per l'imprenditore di camorra Gaetano Vassallo (vedi 'L'espresso' n. 37 'Così ho avvelenato Napoli'), Cosentino controlla il consorzio per la raccolta dei rifiuti infiltrato dalla camorra, l'Eco 4, e gestisce la costruzione degli inceneritori in accordo con Sandokan. Per Michele Froncillo, un altro pentito citato nell'ultima indagine, anche il boss legato a Sandokan, Raffaele Letizia, ha rapporti con Cosentino per ottenere appalti. Mentre secondo quello che raccontava già nel 2000 il cugino di Sandokan, Carmine Schiavone, i primi patti elettorali tra i casalesi e Cosentino risalgono alle elezioni amministrative del 1982, quando Nicola Cosentino militava nel Partito socialdemocratico. Le accuse dei collaboratori di giustizia, anche quando sono concordanti, hanno valore solo se riscontrate, ma indubbiamente imporrebbero una riflessione. Invece sul caso è calato il silenzio. Nessuno sembra interessato davvero a capire chi è questo sottosegretario all'Economia di Casal di Principe che dispone di deleghe delicate sul Cipe, sul dipartimento del Tesoro e sulle frequenze radio e tv. Per comprendere meglio il fenomeno Cosentino, 'L'espresso' ha consultato informative prefettizie, visure camerali e catastali che riportano fatti certi, non parole di pentiti. A partire da un atto dal quale risulta che Nicola Cosentino ha comprato un terreno dal boss Mario Schiavone, arrestato nel blitz del 30 settembre scorso.
Marco Lillo l'Espresso (09 ottobre 2008)

lunedì 13 ottobre 2008

Leggi ad personam: tocca a Carnevale...



ROMA - E adesso c'è un record anche per le leggi ad personam. Anzi: doppio record. Stessa persona come beneficiario e stesso governo. Sempre Berlusconi, of course. E con un "graziato" di tutto rispetto, Corrado Carnevale, la toga che fu nota come "l'ammazzasentenze", per via dei processi di mafia che annullava dalla Suprema corte per vizi formali.
Che osò perfino dare del "cretino" a Giovanni Falcone, perché "certi morti io non li rispetto". Ma Carnevale è nel cuore della destra. Gli fecero una leggina ad hoc nel 2003, per ripescarlo dalla pensione dov'era finito quale imputato in un processo per mafia, gliene rifanno una per consentirgli di concorrere all'unico incarico che desidera, il posto di primo presidente della Cassazione. Ci arriverà alla veneranda età di 80 anni, ci potrà restare fino ai suoi 83, anche se i colleghi vanno in pensione a 75. Appena ieri, a Taormina, davanti ai giovani avvocati, il Guardasigilli Alfano ha vantato i meriti del Csm perché "svecchia" i capi degli uffici. Ma per Carnevale, l'unico che si è vantato d'essere l'ispiratore della prima norma a suo favore, ben venga un'eccezione.

Lodo Alfano, lodo Consolo, lodo Geronzi. Eccoci al lodo Carnevale. Partorito giovedì 9 ottobre, al Senato. Infilato nel decreto legge che dà più soldi ai magistrati in marcia verso le sedi disagiate. Lo propone Luigi Compagna, docente di dottrine politiche, d'origini repubblicane, oggi forzista. A leggerla, la minuscola norma pro-Carnevale, è incomprensibile, ma significa tanto. Dice così: "L'articolo 36 del decreto legislativo 5 aprile 2006 n.160, come modificato dall'articolo 2 comma 8 della legge 30 luglio 2007 n.111, è abrogato". Vuol dire: la disposizione dell'ordinamento giudiziario dell'ex Guardasigilli Clemente Mastella (2007) per cui, chi fu graziato nel 2004 e ottenne la ricostruzione della carriera non può ottenere posti di vertice oltre i 75 anni, "è abrogata". La Mastella cancellava la Castelli che invece non poneva limiti d'età. Ora si torna indietro. E si dà via libera a Carnevale.
In aula, la proposta di Compagna ottiene il placet del governo per bocca del sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, ex toga di Unicost candidata da Berlusconi. L'opposizione, stavolta (e non come per il lodo Geronzi), reagisce. Il democratico Felice Casson chiede il voto elettronico. Su 271 presenti, 159 sono a favore, 111 contro. Dice l'ex pm di Venezia: "La maggioranza aveva proposto la norma in commissione, ma il governo era contrario. Poi rieccola in aula. Io e Gerardo D'Ambrosio ne abbiamo ragionato e il nostro è stato un no convinto".
Due leggine in cinque anni. La prima ripescò Carnevale dalla pensione, dov'era finito per via del processo per concorso in associazione mafiosa che gli aveva mosso la procura di Gian Carlo Caselli. Fu assolto nel 2002. L'anno dopo ecco un comma nella Finanziaria per restituire onore e carriera ai dipendenti pubblici, toghe comprese, finite nelle maglie della giustizia ma uscitene illese. Non solo possono tornare in servizio, ma recuperare pure gli anni persi sforando l'età pensionabile. Un dl del 2004 fa di più e consente ai reintegrati di ottenere un posto in sovrannumero.
Al Csm si scatena la guerra. Parte il ricorso alla Consulta perché la legge incide sui poteri del Consiglio. La Corte lo boccia. Il braccio di ferro prosegue, il Csm stoppa Carnevale che ricorre al Tar e al Consiglio di Stato. Dove vince. In un drammatica seduta, finita 11 a 10, in cui anche la sinistra si divide, "l'ammazzasentenze" ottiene il posto di presidente di sezione civile della Suprema corte. Commenta: "È un atto dovuto".
La sua unica aspirazione è conosciuta da tutti. Diventare primo presidente. Con la leggina fresca di voto (e se la Camera la conferma) ce la farà. L'attuale capo, Vincenzo Carbone, va in pensione a metà del 2010. Lui avrà 80 anni, potrà ridire, "sono il più anziano". Al Csm sono basiti. Ezia Maccora, ex presidente di Md della commissione per i capi degli uffici, che ha fatto del ringiovanimento della dirigenza uno degli obiettivi del suo lavoro, commenta: "A Taormina ho sentito Alfano apprezzare il nostro sforzo per fare nomine basate su capacità e merito. Questa norma invece va in direzione opposta e consente a un magistrato in età molto avanzata di concorrere ugualmente". Ma per lui ogni strappo è possibile.
Repubblica, 13 ottobre 2008

giovedì 9 ottobre 2008

I salvaladri ci riprovano...



Forti con i deboli, debolissimi con i forti...

ROMA - L'emendamento nascosto nel decreto Alitalia, che permetterebbe di "salvare" i manager dei recenti crack finanziari sarà cancellato nel passaggio parlamentare alla Camera. Lo annunciano fonti governative. Stamane nel corso dell'audizione al Senato il ministro dell'Economia Giulio Tremonti aveva minacciato: "O va via l'emendamento o va via il ministro dell'Economia". L'emendamento, denunciato oggi da "Report" (che va in onda domenica sera) e da "Repubblica", prevede che i reati legati ai grandi dissesti finanziari come Parmalat e Cirio non sarebbero più perseguibili a meno dell'esistenza di un vero e proprio fallimento. Una norma pericolosissima che, di fatto, cancellerebbe i processi a personaggi com Tanzi, Cragnotti e Geronzi.
Tremonti è stato chiarissimo: l'emendamento inserito nella legge di conversione del decreto Alitalia è "fuori dalla logica di questo governo. Se si immagina che la linea del governo sia quella prevista da un emendamento che prevede una riduzione della soglia penale per alcune attività di amministratori si sbaglia".
"Tremonti non dovrebbe andar via da solo, ma insieme a tutta la maggioranza che ha proposto e votato una norma del genere", ha obiettato Pier Luigi Bersani. L'emendamento è stato presentato dal senatore del Pdl, Angelo Maria Cicolani. Diffusasi la notizia sulle conseguenze, nel corso della notte, spiega l'agenzia Adnkronos, c'è stata una serie di telefonate tra i parlamentari del Popolo delle libertà. Più volte si sono sentiti il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Paolo Bonaiuti e i senatori Cicolani e Gianpiero Cantoni.
Da qui la decisione di intervenire e il monito di Tremonti a palazzo Madama contro l'emendamento. "Si è trattato di un errore - fanno notare autorevoli fonti parlamentari del Pdl che hanno seguito da vicino la vicenda-. Non è possibile che in un momento delicato e di fronte a una crisi finanziaria si possa pensare di fare una norma per salvare i manager responsabili".
Repubblica, 9 ottobre 2008

mercoledì 1 ottobre 2008

I regali del governo agli amici



Il Cavaliere salva Catania
con un regalo da 140 milioni

CATANIA - Il silenzio cupo della più grande città della Sicilia che è a oriente stasera sarà rotto da una strepitosa e strepitante "muschitteria". Si intende per "muschitteria" ? in stretto dialetto catanese ? lo scoppio dei petardi che prelude ai fuochi di artificio. Con 140 milioni di euro gentilmente donati da Berlusconi qui è come se quest'anno fosse arrivata un'altra volta Sant'Agata.

Per un mese o due Catania l'hanno salvata. No, Catania non era sull'orlo del crac: Catania era già fallita. Dopo mesi di luci spente persino sulla via Etnea, dopo i vigili appiedati per la benzina che era finita, dopo i quartieri in putrefazione per quelle montagne di rifiuti che nessuno raccoglieva più, un primo finanziamento (a fondo perduto) fa respirare per un po' i catanesi e grazia per il momento i suoi amministratori spensierati e spendaccioni. Pieni di debiti, inseguiti dai creditori. Autisti, librai, trasportatori, giornalai, ristoratori, albergatori, maestre e pure ballerine brasiliane.

E' stato proprio un bel regalo. Se lo aspettavano e non se lo aspettavano, avevano annusato che il ministro Tremonti aveva puntato i piedi per non farglielo avere, però sotto sotto tutti lo sapevano che il Presidente del consiglio in qualche modo avrebbe "perdonato" il suo farmacologo personale e quei proconsoli catanesi che fra sperperi e organici gonfiati avevano affossato la loro città. Il comunicato ufficiale come al solito è stato secco: "Il comitato interministeriale per la programmazione economica ha disposto uno stanziamento di 140 milioni per far fronte all'emergenza finanziaria dell'Ente". Centoquaranta. Per sistemare i conti ne servirebbero secondo alcuni 300 ancora, secondo altri ce ne vorrebbero almeno 700 e forse di più.

E' un supercrac. Se mai pioveranno un'altra volta finanziamenti come manna dal cielo, allora - e soltanto allora - al Comune di Catania potranno ricoprire la voragine e dimenticare come dallo splendore la città è stata risucchiata in un gorgo.
Non sono spiccoli ma basteranno per poco tempo e per poche cose.

Per ora potranno partire gli accrediti in banca per i 4500 dipendenti comunali, per ora il regalo di Roma tapperà qualche buco e onorerà qualche "pagherò". Il vero mistero è cosa accadrà alla vigilia di Natale. A Catania attendevano un'"anticipazione" di 70 milioni e l'omaggio si è rivelato doppio del previsto, ma il declino della città è già segnato. Per i soldi che servono e che ancora non ci sono, per le guerre intestine che si sono scatenate intorno alla bancarotta, per le voci che proprio in queste ore si rincorrono sulle grandi manovre nel tentativo di recuperare altro denaro. Per non finire a pezzi.

Si parla di speculazioni edilizie, di trasformare con un colpo di bacchetta magica aree agricole in edificabili, qualcuno dice che qualcun altro stia progettando un altro grande "sacco" di Catania.
Altro che la Playa come Copacabana, la famosa spiaggia catanese che l'ex sindaco Umberto Scapagnini - "Sciampagnino" lo chiamavano i catanesi - voleva far diventare una piccola grande colonia carioca. Altro che piste da sci nella discesa di Piazza Stesicoro.

A Catania pochi minuti prima del cadeau di Berlusconi i bambini pagavano ancora 4 euro per mangiare all'asilo, all'economato del Comune non erano partiti i mandati di pagamento per lo stipendio di settembre, i "cassamortari" - quelli delle pompe funebri - non consegnavano gratis le loro bare al cimitero. Tutto il resto è andato come doveva andare.

La prima dichiarazione alla notizia del dono per Catania è stata quella del suo sindaco, il senatore del Pdl Raffaele Stancanelli: "E' un successo per la nostra città. Con questi fondi si potranno chiudere i disavanzi fino al 2006. Ma bisognerà cominciare a rimboccarsi le maniche e a lavorare tutti insieme con grande rigore.
Ringrazio tutti per questo risultato ottenuto, anche quelli che a questa soluzione non credevano ma alla fine si sono accodati".

La seconda dichiarazione è stata quella del presidente della Provincia Giuseppe Castiglione: "L'impegno del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è stato mantenuto in tempi brevi. Ma l'intervento del Cipe non risolve tutti i problemi finanziari del Comune". Poi però Castiglione lancia la sua freccia velenosa: "Questo intervento del Cipe, che sottrae fondi agli investimenti, deve rimanere un intervento assolutamente straordinario e non può diventare la regola o una speranza per alcuni amministratori pubblici per ripianare situazioni d'emergenza". Segnali di guerra.

Fra quello (Stancanelli, in quota An) che alla scadenza delle candidature doveva finire alla Provincia e quell'altro (Castiglione, in quota Forza Italia) che era stato designato sindaco. Dalla notte all'alba uno si è ritrovato al posto dell'altro. E da lì è iniziata una ferocissima e sotterranea battaglia quotidiana su come spartirsi Catania e i suoi debiti presenti passati futuri.

Indovinate chi era nascosto alle spalle di tutti? Sì, proprio lui: il governatore Raffaele Lombardo. Prima di insediarsi a Palermo - non si mai, la lontananza - ha voluto imporre a tutti i costi in Comune (dove di Scapagnini è stato vice sindaco) un suo uomo.
Su quello che c'era ancora da "dividersi" in quegli anni a Catania la verità è affiorata fino in fondo soltanto dopo. Al Comune e nelle "partecipate".

Solo l'Amt, l'azienda trasporti, ha accumulato un deficit di 157 milioni di euro. Sprechi, assunzioni pilotate, spese folli per consulenti, telefonini, viaggi. La Corte dei Conti a giugno ha denunciato tutte le "gravi irregolarità", la "carente attendibilità delle scritture contabili", l'"insufficienza delle risorse destinate ai bilanci.. ".

Un buco sempre più profondo, anno dopo anno dal 2003 in poi. Con un'inchiesta della magistratura che ha già coinvolto una quarantina di personaggi, fra i quali gli ex assessori al Bilancio e e naturalmente l'ex sindaco Scapagnini. E' un'inchiesta che va avanti. "Certo che stiamo indagando ancora sul buco in bilancio al Comune", dice il procuratore capo della repubblica di Catania Vincenzo D'Agata. E poi scaglia all'improvviso un sasso: "E' un'inchiesta lunga e complessa e io spero che non ci siano connessioni con la criminalità organizzata". E' solo un sospetto.
E' solo un'ombra mafiosa che si allunga anche sul fallimento di Catania.

Repubblica 1 ottobre

sabato 27 settembre 2008

Pericle insegnami che cos'è la legge...


«Dimmi, Pericle, mi sapresti insegnare che cosa è la legge?» chiede Alcibiade a Pericle. Pericle risponde: «Tutto ciò che chi comanda, dopo aver deliberato, fa mettere per iscritto, stabilendo ciò che si debba e non si debba fare, si chiama legge».
E prosegue: «Tutto ciò che si costringe qualcuno a fare, senza persuasione, facendolo mettere per iscritto oppure in altro modo, è sopraffazione piuttosto che legge». Se non ci si parla, non ci si può comprendere e, a maggior ragione, non è possibile la persuasione.
Questa è un´ovvietà.

Per intendere però l´importanza del contesto comunicativo, cioè della possibilità che alle deliberazioni legislative concorra un elevato numero di voci che si ascoltano le une con le altre, in un concorso che, ovviamente, non è affatto detto che si concluda con una concordanza generale, si può ricorrere a un´immagine aristotelica, l´immagine della preparazione del banchetto. In questa immagine c´è anche una risposta all´eterna questione, del perché l´opinione dei più deve prevalere su quella dei meno.

Il principio maggioritario è una semplice formula giuridica, un espediente pratico di cui non si può fare a meno per uscire dallo stallo di posizioni contrapposte (E. Ruffini)? È forse solo una «regoletta discutibile» (P. Grossi) che trascura il fatto che spesso la storia deve prendere atto, a posteriori, che la ragione stava dalla parte delle minoranze, le minoranze illuminate (e inascoltate)?
Oppure, si tratta forse non di una regoletta ma di un principio che racchiude un valore? Non diremo certo che la maggioranza ha sempre ragione (vox populi, vox dei: massima della democrazia totalitaria), ma forse, a favore dell´opinione dei più, c´è un motivo pragmatico che la fa preferire all´opinione dei meno. A condizione, però, che «i più» siano capaci di dialogo e si aggreghino in un contesto comunicativo, e non siano un´armata che non sente ragioni.

In un passo della Politica di Aristotele (1281b 1-35), che sembra precorrere la sofisticata «democrazia deliberativa» di Jürgen Habermas e che meriterebbe un esame analitico come quello di Senofonte al quale ci siamo dedicati, leggiamo: «Che i più debbano essere sovrani nello Stato, a preferenza dei migliori, che pur sono pochi, sembra che si possa sostenere: implica sì delle difficoltà, ma forse anche la verità.
Può darsi, in effetti, che i molti, pur se singolarmente non eccellenti, qualora si raccolgano insieme, siano superiori a ciascuno di loro, in quanto presi non singolarmente, ma nella loro totalità, come lo sono i pranzi comuni rispetto a quelli allestiti a spese di uno solo. In realtà, essendo molti, ciascuno ha una parte di virtù e di saggezza e quando si raccolgono e uniscono insieme, diventano un uomo con molti piedi, con molte mani, con molti sensi, così diventano un uomo con molte eccellenti doti di carattere e d´intelligenza».

Dunque, inferiori presi uno per uno, diventano superiori agli uomini migliori, quando è consentito loro di contribuire all´opera comune, dando il meglio che c´è in loro. Più numeroso il contributo, migliore il risultato.
Naturalmente, quest´immagine del pranzo allestito da un «uomo in grande» non supera questa obiezione: che nulla esclude che ciò che si mette in comune sia non il meglio, ma il peggio, cioè, nell´immagine del pranzo, che le pietanze propinate siano indigeste.
Ma questa è un´obiezione, per così dire, esterna. Dal punto di vista interno, il punto di vista dei partecipanti, è chiaro che nessuno di loro ammetterebbe mai che il proprio contributo all´opera comune è rivolta al peggio, non al meglio.
Ognuno ritiene di poter contribuire positivamente alle decisioni collettive; l´esclusione è percepita come arbitrio e sopraffazione proprio nei riguardi della propria parte migliore.

Ora, accade, e sembra normale, che il partito o la coalizione che dispone della maggioranza dei voti, sufficiente per deliberare, consideri superfluo il contributo della minoranza: se c´è, bene; se non c´è, bene lo stesso, anzi, qualche volta, meglio, perché si risparmia tempo.
Le procedure parlamentari, la logica delle coalizioni, la divisione delle forze in maggioranza e opposizione, il diritto della maggioranza di trasformare il proprio programma in leggi e il dovere delle minoranze, in quanto minoranze, di non agire solo per impedire o boicottare, rendono comprensibile, sotto un certo punto di vista, che si dica: abbiamo i voti e quindi tiriamo innanzi senza curarci di loro, la minoranza. Ma è un errore. Davvero la regola della maggioranza si riduce così «a una regoletta».

Una regoletta, aggiungiamo, pericolosa. Noi conosciamo, forse anche per esperienza diretta, il senso di frustrazione e di umiliazione che deriva dalla percezione della propria inutilità. Si parla, e nessuno ascolta. Si propone, e nessuno recepisce.
Quando la frustrazione si consolida presso coloro che prendono sul serio la loro funzione di legislatori, si determinano reazioni di auto-esclusione e desideri di rivincita con uguale e contrario atteggiamento di chiusura, non appena se ne presenterà l´occasione. Ogni confronto si trasformerà in affronto e così lo spazio deliberativo comune sarà lacerato.
La legge apparirà essere, a chi non ha partecipato, una prevaricazione.

La «ragione pubblica» - concetto oggi particolarmente studiato in relazione ai problemi della convivenza in società segnate dalla compresenza di plurime visioni del mondo - è una sfera ideale alla quale accedono le singole ragioni particolari, le quali si confrontano tramite argomenti generalmente considerati ragionevoli e quindi suscettibili di confronti, verifiche e confutazione; argomenti che, in breve, si prestino a essere discussi. Le decisioni fondate nella ragione pubblica sono quelle sostenute con argomenti non necessariamente da tutti condivisi, ma almeno da tutti accettabili come ragionevoli, in quanto appartenenti a un comune quadro di senso e di valore. Contraddicono invece la ragione pubblica e distruggono il contesto comunicativo le ragioni appartenenti a «visioni del mondo chiuse» (nella terminologia di John Rawls, che particolarmente ha elaborato queste nozioni, le «dottrine comprensive»).

Solo nella sfera della «ragione pubblica» possono attivarsi procedure deliberative e si può lavorare in vista di accordi sulla gestione delle questioni politiche che possano apparire ragionevoli ai cittadini, in quanto cittadini, non in quanto appartenenti a particolari comunità di fede religiosa o di fede politica.
Un sistema di governo in cui le decisioni legislative siano la traduzione immediata e diretta - cioè senza il filtro e senza l´esame della ragione pubblica - di precetti e norme derivanti da una fede (fede in una verità religiosa o mondana, comunque in una verità), sarebbe inevitabilmente violenza nei confronti del non credente («l´infedele»), indipendentemente dall´ampiezza del consenso di cui potessero godere.
Anzi, si potrebbe perfino stabilire la proporzione inversa: tanto più largo il consenso, tanto più grande la violenza che la verità è capace di contenere.
Sotto questo aspetto, dire legge non violenta equivale a dire legge laica; al contrario, dire legge confessionale equivale a dire legge violenta. La verità non è di per sé incompatibile con la democrazia, ma è funzionale a quella democrazia totalitaria cui già sì è fatto cenno.

L´esigenza di potersi appellare alla ragione pubblica nella legislazione, un quanto si voglia sconfiggere la violenza che sempre sta in agguato nel fatto stesso di porre la legge, spiega la fortuna attuale dell´etsi Deus non daretur, la formula con la quale, quattro secoli fa, Ugo Grozio invitava i legislatori a liberarsi dall´ipoteca confessionale e a fondare il diritto su ragioni razionali; invitava cioè a lasciar da parte, nella legislazione civile, le verità assolute.
Mettere da parte Dio e i suoi argomenti era necessario per far posto alle ragioni degli uomini; noi diremmo: per costruire una sfera pubblica in cui vi fosse posto per tutti. Naturalmente, da parte confessionale un simile invito ad agire indipendentemente dall´esistenza di Dio non poteva non essere respinto. Per ogni credente, Dio non si presta a essere messo tra parentesi, come se non ci fosse. Ma l´esigenza che ha mosso alla ri-proposizione di quell´antica espressione (G. E. Rusconi) non è affatto peregrina. È l´esigenza della «ragione pubblica».
A questa stessa esigenza corrisponde l´invito opposto, di parte confessionale, rivolto ai non credenti affinché siano loro ad agire veluti si Deus daretur (J. Ratzinger). Altrettanto naturalmente, anche questo invito è stato respinto.
Per un non credente in Dio, affidarsi a Dio (cioè all´autorità che ne pretende la rappresentanza in terra) significa contraddire se stessi. Ma questa proposta-al-contrario coincide con la prima, nel sottolineare l´imprescindibilità di un contesto comune, con Dio per nessuno o con Dio per tutti, nel quale la legge possa essere accettata generalmente in base alla persuasione comune.

Entrambe le formule non hanno dunque aiutato a fare passi avanti. Sono apparse anzi delle provocazioni, ciascuna per la sua parte, alla libertà, autenticità e responsabilità della coscienza. In effetti, non si tratta affatto di esigere rinunce e conversioni di quella natura, né, ancor meno, di chiedere di agire come se, contraddicendo se stessi. Non è questa la via che conduce a espungere la violenza dalla legislazione.

Un punto deve essere tenuto fermo: la legge deve essere aperta a tutti gli apporti, compresi quelli basati su determinate assunzioni di verità. La verità può trovare posto nella democrazia e può esprimersi in «legislazione che persuade», perché la democrazia non è nichilista. Ma solo a patto però - questo è il punto decisivo - che si sia disposti, al momento opportuno, quando cioè ci si confronta con gli altri, a difendere i principi e le politiche che la nostra concezione della verità a nostro dire sostiene, portando ragioni appropriatamente pubbliche (J. Rawls).

Così, i sistemi religiosi, filosofici, ideologici e morali non sono esclusi dalla legislazione, ma vi possono entrare solo se hanno dalla propria parte anche buone ragioni «comuni», su cui si possa dissentire o acconsentire, per pervenire a decisioni accettate, pur a partire da visioni del mondo diverse, come tali non conciliabili. La legislazione civile, in quanto si intenda spogliarla, per quanto è possibile, del suo contenuto di prevaricazione, non può intendersi che come strumento di convivenza, non di salvezza delle anime e nemmeno di rigenerazione del mondo secondo un´idea etica chiusa in sé medesima.

Il divieto dell´eutanasia può essere argomentato con una ragione di fede religiosa: l´essere la vita proprietà divina («Dio dà e Dio toglie»); l´indissolubilità del matrimonio può essere sostenuta per ragioni sacramentali («non separare quel che Dio ha unito»). Argomenti di tal genere non appartengono alla «ragione pubblica», non possono essere ragionevolmente discussi. Su di essi ci si può solo contare. La «conta», in questi casi, varrà come potenziale sopraffazione.
Ma si può anche argomentare diversamente. Nel primo caso, ponendo il problema di come garantire la genuinità della manifestazione di volontà circa la fine della propria esistenza; di come accertare ch´essa permanga tale fino all´ultimo e non sia revocata in extremis; di come evitare che la vita, nel momento della sua massima debolezza, cada nelle mani di terzi, eventualmente mossi da intenti egoistici; di come evitare che si apra uno scivolamento verso politiche pubbliche di soppressione di esseri umani, come dicevano i nazisti, la cui vita è «priva di valore vitale».

Alla fine, se ne potrà anche concludere che, tutto considerato, difficoltà insormontabili e rischi inevitabili o molto probabili consigliano di far prevalere il divieto sul pur molto ragionevole argomento dell´esistenza di condizioni di esistenza divenute umanamente insostenibili.
Oppure, viceversa. Nel secondo caso, si potrà argomentare sull´importanza della stabilità familiare, nella vita e nella riproduzione della vita delle persone e delle società; a ciò si potrà contrapporre il valore della genuinità delle relazioni interpersonali e la devastazione ch´esse possono subire in conseguenza di vincoli imposti. Su questo genere di argomenti si può discutere, le carte possono mescolarsi rispetto alle fedi e alle ideologie, le soluzioni di oggi potranno essere riviste domani. Chi, per il momento, è stato minoranza non si sentirà per questo oggetto di prevaricazione.

Qualora poi le posizioni di fede non trovino argomenti, o argomenti convincenti di ragione pubblica per farsi valere in generale come legge, esse devono disporsi alla rinuncia. Potranno tuttavia richiedere ragionevolmente di essere riconosciute per sé, come sfere di autonomia a favore della libertà di coscienza dei propri aderenti, sempre che ciò non contraddica esigenze collettive irrinunciabili (questione a sua volta da affrontare nell´ambito della ragione pubblica).

Tra le leggi che impongono e quelle che vietano vi sono quelle che permettono (in certi casi, a certe condizioni). Le leggi permissive, cioè le leggi di libertà (nessuno oggi pensa - in altri momenti si è pensato anche questo - che l´eutanasia o il divorzio possano essere imposti) sono quelle alle quali ci si rivolge per superare lo stallo, il «punto morto» delle visioni del mondo incompatibili che si confrontano, senza che sia possibile una «uscita» nella ragione pubblica. Anzi, una «ragione pubblica» che incorpori, tra i suoi principi, il rigetto della legge come violenza porta necessariamente a dire così: nell´assenza di argomenti idonei a «persuadere», la libertà deve prevalere. Questa è la massima della legge di Pericle.

Gustavo Zagrebelsky - La Repubblica 26 settembre 2008

venerdì 26 settembre 2008

Dal Centro per la Pace: manifestazione Roma 4 ottobre


Comunicato del comitato promotore della manifestazione nazionale del 4 ottobre

E' ora di reagire uniti contro ogni tipo di razzismo

Abdul, 19 anni, è stato ucciso, domenica mattina a Milano, perché nero. L’assassinio di Abdul non è purtroppo un fatto isolato, ma è una cruenta espressione del clima di razzismo diffuso nella società. Questo clima viene alimentato dai provvedimenti razzisti del governo e delle amministrazioni comunali. Siamo tutti coinvolti, è il momento di reagire riconoscendo la nostra comune umanità. Esprimiamo la nostra indignazione per questo barbaro omicidio e la più profonda solidarietà ai familiari e ai conoscenti di Abdul.
Anche per questo invitiamo tutti a scendere in piazza a Roma nella manifestazione nazionale del 4 ottobre per dire Stop a tutti i razzismi.

È il momento di reagire alle logiche e ai molteplici atti di razzismo istituzionale e diffuso – che arrivano ad attaccare e mettere in discussione la vita stessa – per vivere meglio ed essere tutti più liberi.
Le misure proposte dal governo, che ipotizzano il reato di “clandestinità aggravano e alimentano il razzismo.
Il riconoscimento della nostra comune umanità motiva una forte mobilitazione diretta e unitaria per affermare solidarietà e accoglienza per tutti.

• Contro tutti i razzismi

• Basta stragi nei mari ! Libera circolazione per tutti !

• Per la libertà e la sicurezza di tutti: solidarietà e accoglienza

• Ritiro immediato del “pacchetto sicurezza” del governo e chiusura dei C.P.T.

• Contro la direttiva della UE sul rimpatrio

• Contro le logiche repressive, criminali, discriminatorie e di sfruttamento da qualunque parte provengano

Info e adesioni : stoprazzismo@libero.it ; 055-2302015, 06-70302626,334-7274379; http://4ottobre2008.bloog.it
Manifestazione autofinanziata, sostienila!
versamenti c/c postale Cib Unicobas n° 40899007 causale “4 ottobre”

Stop al razzismo

http://video.tiscali.it/categorie/Speciali/Mediauvis/551.html
http://4ottobre2008.bloog.it/
Parti con noi da Forlì-Cesena! Se desideri partecipare alla manifestazione contatta il Centro Pace cell. 349 1589366 o centropace_cesena@tiscali.it
Manifestazione nazionale antirazzista
Roma 4 ottobre ore 14.00 piazza della Repubblica
Concerto finale (Piazza Venezia)

lunedì 22 settembre 2008

Balle Volanti...Dis-informazione infinita...TG1 e Alitalia


Riportiamo l'analisi di Marco Travaglio su come l'"informazione deviata" ha comunicato agli italiani la rottura delle trattative sul caso Alitalia...

Siccome è una splendida notizia, sperando che sia definitiva, la ritirata dei 18 furbetti della Cai che volevano papparsi Alitalia a spese nostre e dei lavoratori è stata accolta dai nove decimi della stampa italiana come una rovinosa jattura. S’è listato a lutto persino il Tg1 di Johnny Raiotta, che non prenderebbe posizione contro il governo nemmeno se ripristinasse il rogo (“Il Consiglio dei ministri vara il nuovo pacchetto sicurezza per difendere i cittadini dalle streghe e dagli eretici ereditati dal precedente governo: soddisfazione nella maggioranza, possibilista l’opposizione”). Infatti s’è schierato a favore del governo contro i dipendenti Alitalia che si oppongono allo scippo di stipendi e posti di lavoro per ingrassare i compari del Cainano, dunque il cosiddetto servizio pubblico li ha dipinti come figure “bizzarre” che “festeggiano mentre il Titanic affonda”.

E dire che di occasioni per schierarsi sul caso Alitalia, in questi mesi, Raiotta ne avrebbe avute parecchie. Poteva definire “bizzarro” il niet di Al Tappone all’Air France che, grazie a Prodi e Padoa-Schioppa, era pronta a comprarsi Alitalia con dentro tutti i debiti e i tre quarti degli attuali esuberi. Poteva definire “bizzarro” il salvataggio dell’AirOne di Carlo Toto, il patriota dell’italianità che, fra il lusco e il brusco, regalava all’Alitalia, cioè a noi, il suo miliardo di italianissimi debiti. Poteva definire “bizzarri” i conflitti d’interessi di Colaninno, Benetton, Marcegaglia, Gavio, Ligresti, Passera, Tronchetti Dov'Era e compagnia volante. Poteva definire “bizzarro” che il governo cambiasse tre leggi e abolisse l’antitrust per i porci comodi di lorsignori. Poteva definire “bizzarra” la buonuscita di 8 milioni di euro donata al terz’ultimo presidente, Giancarlo Cimoli, nominato dal governo Berlusconi2. Poteva definire “bizzarre” le accuse del governo e dei suoi house-organ alla terribile lobby dei piloti, colpevoli di tutto, anche del buco dell’ozono, visto che un pilota Alitalia costa il 25-30% in meno di un collega di Air France, Lufthansa, British e Iberia e che comunque gli stipendi del personale viaggiante incidono pochissimo sulle spese d’esercizio. Poteva definire “bizzarre” le accuse alla Cgil che, contrariamente a quel che si racconta, ha firmato l’accordo con la Cai per il personale di terra, ma non poteva farlo per i piloti visto che in maggioranza non aderiscono alla triade confederale.

Poteva definire “bizzarra” la latitanza dei politici i quali, dopo aver divorato letteralmente Alitalia per 15 anni, hanno accuratamente evitato - Di Pietro a parte - di portare la loro solidarietà alle migliaia di lavoratori in ansia. Poteva definire “bizzarra” la trattativa clandestina e parallela avviata dal solito Gianni Letta con Lufthansa (tanto più bizzarra in quanto Al Tappone aveva sempre parlato di “cordata italiana”, mentre pare che Lufthansa sia leggerissimamente tedesca, comunque non più di quanto Air France fosse francese). Poteva definire “bizzarra” la minaccia del Cainano ai sindacati di negare cassintegrazione e mobilità lunga ai dipendenti Alitalia in esubero se fosse stata respinta l’offerta dei suoi 18 amichetti, una sorta di estorsione con mezzi pubblici per fini privati. Poteva definire “bizzarra” la rinuncia del governo e del commissario Fantozzi a cercare sul mercato acquirenti alternativi per una compagnia che - come notava ieri Boeri su Repubblica - ne aveva trovato uno anche quand’era piena di debiti e non dovrebbe faticare a trovarne oggi che non ne ha più (perché li paghiamo noi).

Volendo poi esagerare, Johhny Raiotta e il suo tiggì potevano definire “bizzarra” la malagestione partitocratica dell’Alitalia negli ultimi 15 anni, facendo nomi e cognomi dei manager, anzi dei magnager, che l’hanno spolpata, ciascuno col suo sponsor politico in sovrimpressione. E potevano definire “bizzarre” certe rotte aeree imposte alla compagnia di bandiera da ministri della prima e della seconda Repubblica, ansiosi di atterrare nel cortile di casa propria (il volo Treviso-Roma per far contento il dc Bernini, il volo Crotone-Roma perché l’Udc Tassone ci teneva tanto, il volo Albenga-Roma per recapitare a domicilio il ministro forzista Scajola). Ma, come diceva Victor Hugo, c’è gente che pagherebbe per vendersi. Figurarsi il partigiano Johnny, per giunta alla vigilia dell’annunciato ribaltone alla Rai e, si spera, anche al Tg1. Così ha buttato il cuore oltre l'ostacolo e ha definito “bizzarri” i lavoratori che osano financo difendere lo stipendio e il posto di lavoro. Come sempre, dalla parte dei più deboli.

Marco Travaglio, Ora d'aria Unità, 20 sett 2008

...e il resto di niente...

Maître à panser



"Di Borghezio non posso che dire bene, sa è uno che colleziona libri antichi. Poi in pubblico si trasforma"
(Roberto Maroni, all'epoca capogruppo Lega Nord alla Camera, ora ministro dell'Interno, 10 gennaio 2007)

"Al congresso contro la moschea sarà presente un po' tutta la galassia dell'estrema destra europea. Tra gli altri interverranno il fiammingo Vlaams Belang, nato sulle ceneri del Vlaams Blok, partito sciolto dall'Alta Corte belga per incitamento alla discriminazione e all'odio razziale, e l'Npd, organizzazione orgogliosamente neonazista che in certe regioni del nord della Germania supera il 30 per cento dei consensi. L'Npd, per intenderci, è quel partito i cui deputati, un paio di anni fa, uscirono dall'aula mentre l'Assemblea osservava un minuto di silenzio in memoria delle vittime di Auschwitz, e che, in occasione del 60° anniversario della fine delle seconda guerra mondiale, pretendeva di poter andare a sventolare bandiere uncinate nei pressi della Porta di Brandeburgo, a pochi metri dal Memoriale della Shoah. Aderiscono lFpo austriaco, sempre di estrema destra, e il Front National francese di Jean Marie Le Pen, per l'Italia sarà presente Mario Borghezio in rappresentanza della Lega Nord"
(www. rainews24. rai. it)

"Troppa tensione. La manifestazione anti-islamica di Colonia indetta da un cartello di forze xenofobe è stata vietata dalla polizia... La presenza di persone molto vicine alla galassia neonazista ha messo in allarme non solo le migliaia di partecipanti alla contromanifestazione ma anche i servizi segreti tedeschi"
(euronews. net, 20 settembre 2008)

"Io protesto vivamente perché questa di oggi è una sconfitta e una ulteriore conferma che vi è una strategia di criminalizzazione di chi vuole parlare e dimostrare pacificamente e democraticamente contro il totalitarismo islamico. Una sconfitta della libertà perché questa doveva essere una manifestazione di libertà, nelle mie intenzioni. Io avevo appena cominciato a parlare quando è arrivato l'ordine dell'autorità di cessare la manifestazione per questioni di ordine pubblico. Io sono riuscito solo a pronunciare il nome di Oriana Fallaci e a mostrare il libro La Rabbia e l'Orgoglio, perché avevo considerato questa mia adesione una risposta all'appello disperato di Oriana Fallaci che disse 'Tirate fuori i coglioni se volete combattere contro questo pericolo numero Uno di questo secolo'..."
(Mario Borghezio, eurodeputato Lega Nord, Ansa, Colonia, 20 settembre 2008)

"Ho preso parte alla manifestazione a titolo personale. Credo sia stata un'iniziativa simile a cento di quelle che la Lega tiene in Italia contro la costruzione di nuove moschee"
(Mario Borghezio, eurodeputato Lega Nord, al telefono con Apcom, mentre da Colonia rientrava in treno a Bruxelles, 20 settembre 2008)

mercoledì 17 settembre 2008

Giovani AN: "Non saremo mai antifascisti"



Popolo delle "libertà"??? Qual è il nesso fra libertà e fascismo? Se qualcuno sa spiegarcelo...

"Ce l'ho messa tutta per trovare un motivo valido per essere antifascista ma non l'ho proprio trovato anzi ne ho trovati molti per non esserlo", è uno dei passaggi della lettera aperta che Federico Iadicicco, consigliere provinciale del Pdl e presidente di Azione Giovani a Roma, rivolge sul sito www.azionegiovaniroma.org agli italiani in merito al dibattito di questi giorni sull'antifascismo. Il Pd: "Cosa ne pensa il ministro Meloni?".
Dibattito aperto dalle parole del sindaco di Roma Gianni Alemanno sulle leggi razziali e dal ministro della Difesa Ignazio La Russa su resistenza e Salò. Fino alle parole del presidente della Camera: "La destra politica italiana e a maggior ragione i giovani - ha detto Gianfranco Fini alla festa di Azione giovani 'Atreju 08' a Roma - devono senza ambiguità dire alto e forte che si riconoscono in alcuni valori della nostra Costituzione, come libertà, uguaglianza e solidarietà o giustizia sociale".
"Circa due anni fa - scrive oggi Iadicicco -, non nel 1943, il più importante sito della rete antifascista italiana, Indymedia, pubblicò un articolo di commento a una iniziativa di Azione giovani di Roma e ritenne utile mettere vicino al mio nome anche il mio indirizzo di casa, con l'evidente intento di puntare l'indice contro di me e di indicarmi come bersaglio da colpire. Ho pensato: 'Come potrei aderire alla cerchia dei miei aguzzini? Come potrei dichiararmi antifascista?'".
Ed ancora: "Sono andato un po' indietro nel tempo fra gli anni Settanta e Ottanta, comunque non nel 1943, e mi è venuto alla mente che alcune decine di ragazzi come me, che facevano quello che faccio io oggi, sono stati uccisi dall'odio degli antifascisti e francamente a quel punto sono crollato".

"Ce l'ho messa tutta - conclude Iadicicco - per trovare un motivo valido per essere antifascista ma non l'ho proprio trovato anzi ne ho trovati molti per non esserlo. A questo punto ti prego di capirmi e con me tutti i ragazzi di Azione Giovani. Prego Dio affinché ci dia la forza di perdonare chi in nome dell'antifascismo ha ucciso giovani vite innocenti; ma cerca di comprenderci noi non possiamo essere, non vogliamo essere e non saremo mai antifascisti".
La reazione. La presa di posizione di Iadicco scatena la reazione di Pina Picierno, ministro ombra delle politiche giovanili del Partito Democratico. "La lettera di Iadicicco, è un documento preoccupante, ma fa finalmente chiarezza. Iadicicco ci fa partecipi del suo sofferto quanto inconcludente percorso interiore per ripudiare il fascismo, che lo avrebbe portato invece a scorgere nuovi motivi per continuare ad esserne fieramente sostenitore. Non è che l'ennesima testimonianza del fatto che - continua la Picierno - purtroppo, le coraggiose affermazioni di Fini alla festa dei giovani di An non sono condivise dalla stragrande maggioranza del partito, come dimostrano le goffe precisazioni di Alemanno e La Russa. Anzi, proprio i militanti più giovani, che sabato hanno ascoltato dalla viva voce del loro leader quelle affermazioni, ne prendono nettamente le distanze".

Repubblica, 17 settembre 2008

lunedì 15 settembre 2008

Abdul Salam Guibre: ragazzo italiano


Ad uccidere a sprangate Abdul Salam Guibre, domenica notte alla periferia di Milano, sono stati padre e figlio. Insieme, hanno ammazzato il diciannovenne cittadino italiano, originario del Burkina Faso, che secondo loro aveva rubato dei dolci dal loro chiosco. Hanno confessato subito Fausto Cristofoli, 51 anni e suo figlio Daniele di 31: dicono di aver visto Abdul e i due amici che erano con lui rubare dei dolci, e si sono convinti che i tre si fossero impossessati anche del danaro in cassa. Ma dev’esserci dietro altro odio e altro rancore per spingere padre e figlio a prendere la macchina, inseguire i tre ragazzi, tirar fuori le spranghe, urlare «ladri, negri di merda» e colpire duro. Fino a uccidere. Ci dev’essere quel «clima violento e minaccioso che una predicazione di odio anti-immigrati, anti-rom e anti-romeni ha incoraggiato fino a una soglia non più accettabile», come sostiene la Comunità di Sant’Egidio, che «invita tutti ad abbassare i toni, a non rincorrere “percezioni di insicurezza” che in realtà rischiano solo di essere interpretate da frange di violenti come autorizzazioni a imprese di pseudo-giustizia fai da te».

I due aggressori sono stati indetificati subito grazie agli amici di Abdul, che erano riusciti a prendere una parte della targa del mezzo a bordo del quale padre e figlio si erano allontanati. Poi hanno portato di corsa Abdul all'ospedale Fatebenefratelli, i medici lo hanno operato alla testa, per il ragazzo non c’è stato niente da fare.

Dalla Procura di Milano è arrivata la richiesta di convalida dei fermi di Fausto e Daniele Cristofoli. La contestazione formulata è di omicidio volontario aggravato dai futili motivi. Quindi non ci sarebbero secondo il magistrato motivi razziali.

Dura condanna da tutto il mondo politico per l’episodio, ma è chiaro che questa ennesima aggressione è frutto delle campagne di insicurezza su cui il centrodestra ha vinto le elezioni. «Non ci sono parole che possano esprimere l'indignazione e la rabbia per il feroce assassinio di un giovane di colore a Milano. E ogni coscienza civile deve ribellarsi a questo mostruoso episodio di razzismo», commenta a sua volta Piero Fassino, ministro degli Esteri del governo ombra del Pd. «Riflettano coloro che ogni giorno alimentano un'isterica fobia contro gli immigrati, e si rendano conto di quale tremenda responsabilità si assume chi rappresenta ogni immigrato come un pericolo e un nemico, creando così un clima di intolleranza e di odio in cui ogni orrore può accadere».

«La Lega la deve smettere, con le sue campagne xenofobe e razziste». Paolo Ferrero, segretario nazionale Prc, nota come «l'omicidio a sprangate di un ragazzo di colore, la cui unica colpa era evidentemente solo questa, visto che aveva anche la cittadinanza italiana, avvenuto oggi a Milano sia un fatto di una gravità inaudita, un inaccettabile e intollerabile atto di razzismo». «Fatti terribili come questi sono, temo, anche il frutto di un clima avvelenato costruito - ribadisce Ferrero - da forze politiche come la Lega, che additano gli immigrati a fonte di tutti i mali».
L'Unità, 15 settembre 2008

giovedì 11 settembre 2008

La Costituzione ai tempi della democrazia autoritaria


La Costituzione fatica nel compito di creare concordia. Quando una Costituzione genera discordia, è segno di qualcosa di nuovo e profondo che ha creato uno scarto. E il momento in cui le strade della legittimità e della legalità (la prima, adeguatezza ad aspettative concrete; la seconda, conformità a norme astratte) si divaricano. Di legalità si vive, quando corrisponde alla legittimità. Ma, altrimenti, si può anche morire. Alla fine è pur sempre la legittimità a prevalere su una legalità ridotta a fantasma senz´anima.
La difesa della Costituzione non può perciò limitarsi alla pur necessaria denuncia delle violazioni e dei tentativi di modificarla stravolgendola. Una cosa è l´incostituzionalità, contrastabile richiamandosi alla legalità costituzionale. Ma, cosa diversa è l´anticostituzionalità, cioè il tentativo di passare da una Costituzione a un´altra. Contro l´anticostituzionalità, il richiamo alla legalità è uno strumento spuntato, perché proprio la legalità è messa in questione. Che cos´è, dunque, la controversia sulla Costituzione: una questione di legalità o di legittimità? Dobbiamo poter rispondere, per metterci sul giusto terreno ed evitare vacue parole. Per farlo, occorre guardare alla psicologia sociale e alle sue aspettative costituzionali. Questa è un´epoca in cui, manifestamente, le relazioni tra le persone si fanno incerte e il primo moto è di diffidenza, difesa, chiusura. Questo è un dato. Alla politica, che pur si disprezza, si chiede attenzione ai propri interessi, alla propria identità, alla propria sicurezza, alla propria privata libertà. L´ossessione per "il proprio" ha, come corrispettivo, l´indifferenza e, dove occorre, l´ostilità per "l´altrui".
In termini morali, quest´atteggiamento implica una pretesa di plusvalenza. In termini politici, comporta la semplificazione dei problemi, che si guardano da un lato solo, il nostro. In termini costituzionali, si traduce in privilegi e discriminazioni.
Esempi? "A casa nostra" vogliamo comandare noi: espressione pregnante, che sottintende un titolo di proprietà tutt´altro che ovvio. Detto diversamente: ci sono persone che, pur vivendo accanto a noi, sono come "in casa altrui", nella diaspora, senza diritti ma solo con concessioni, revocabili secondo convenienza. Gli immigrati pongono problemi? Li risolviamo con quote d´ingresso determinate dalle nostre esigenze sociali ed economiche e, per quanto eccede, ne facciamo dei "clandestini", trattandoli da delinquenti. Non pensiamo che anche noi, gli "aventi diritto", portiamo una responsabilità delle persone che muoiono in mare o nascoste nelle stive, indotte da questa nostra legislazione ad agire, per l´appunto, da clandestini. La criminalità si annida nelle comunità che vivono ai margini della nostra società (oggi, i rom e i sinti; domani, chissà). Allora, spianiamo per intanto i campi dove vivono e pigiamone i pollici, grandi e piccoli, perché lascino un´impronta. Basta non guardare la loro sofferenza e la loro dignità. Certo, i mendicanti seduti o sdraiati sui marciapiedi ostacolano il passaggio. Noi, che non abbiamo bisogno di elemosinare, vietiamo loro di farsi vedere in giro. Basta non pensare alla vergogna che aggiungiamo al bisogno. L´indigenza si diffonde? Istituiamo l´elemosina di Stato. Si crea così una frattura sociale, tipo Ancien Régime? Basta non accorgersene. I diritti si rovesciano in strumenti di esclusione quando, per garantire i nostri, non guardiamo il lato che riguarda gli altri. In una società di uguali, il lato sarebbe uno solo: il mio è anche il tuo. Ma in una società di disuguali, l´unilateralità è la premessa dell´ingiustizia, della discriminazione, dell´altrui disumanizzazione. Quando si prende questa china, non si sa dove si finisce. Perfino a teorizzare la tortura, in nome della sicurezza.
Ma questa è anche un´epoca di restrizione delle cerchie della socievolezza. Il nostro benessere è insidiato dagli altri: dunque rifugiamoci tra di noi, amici nella condivisione dei medesimi interessi. Al riparo dalle insidie del mondo, pensiamo di trovare la nostra sicurezza. L´esistenza in grande appare insensata, anzi insidiosa: la parola umanità suona vuota, le unità politiche create dalla storia dei popoli si disgregano in piccole comunità sospettose l´una verso l´altra; l´Europa segna il passo. Le riduzioni di scala della socievolezza riguardano ogni ambito della vita di relazione e, a mano a mano che procedono, creano nuove inimicizie in una spirale che distrugge l´interesse generale e i suoi postulati di legalità, imparzialità, disinteresse personale. La legge uguale per tutti è sostituita dalla ricerca di immunità e impunità. Ciò che denominiamo "familismo" crea cricche politiche e partitiche, economiche e finanziarie, culturali e accademiche, spesso intrecciate tra loro, dove si organizzano e si chiudono relazioni sociali e di potere protette, per trasmetterle da padri a figli e nipoti, da boss a boss, da amico ad amico e ad amico dell´amico, secondo la legge dell´affiliazione. Sul piano morale, quest´atteggiamento valorizza come virtù l´appartenenza e l´affidabilità, a scapito della libertà. Sul piano politico, si traduce in distruzione dello spirito pubblico e nella sostituzione degli interessi generali con accordi opachi tra "famiglie". Sul piano costituzionale, si risolve nella distruzione della repubblica di cui parla l´art. i della Costituzione, da intendersi nel senso ciceroniano di una comunione basata sul legittimo consenso circa l´utilità comune.
Della diffidenza e della chiusura, conseguenza naturale è la perdita di futuro, come bene collettivo. Si procede alla cieca e, non sapendoci dare una meta che meriti sacrifici, cresciamo in particolarismi e aggressività. Le visioni del futuro, che una volta assumevano le vesti di ideologie, sono state distrutte e, con esse, sono andati perduti anche gli ideali che contenevano. Sono stati sostituiti da mere forze divenute fini a se stesse, come la tecnica alleata all´economia di mercato, mossa dai bilanci delle imprese: forze paragonate al carro di Dschagannath che, secondo una tradizione hindu, trasporta la figura del dio Krishna e, muovendosi da sé senza meta, travolge la gente che, in preda a terrore, cerca inutilmente di guidarlo, rallentarlo, arrestarlo. In termini morali, la perdita di futuro contiene un´autorizzazione in bianco alla consumazione nell´immediato di tutte le possibilità, senza accantonamenti per l´avvenire. In termini politici, comporta una concezione dell´azione pubblica come sequenza di misure emergenziali. Intermini costituzionali, distrugge ciò che, propriamente, è politica e la sostituisce con una gestione d´affari a rendita immediata. Tutto ciò, invero, è un insieme di constatazioni piuttosto banali che, oltretutto, non rispecchiano l´intera realtà costituzionale, per nostra fortuna fatta anche d´altro. Ma, per quanto in queste constatazioni c´è di vero, non sarà altrettanto banale collegarlo con la Costituzione e le sue difficoltà. Quelle tre nevrosi da insicurezza - visione parziale delle cose; disgregazione degli ambiti di vita comune; assenza di futuro - hanno un unico significato: la corrosione del legame sociale. Non siamo solo noi a trovarci alle prese con questa difficoltà, ma noi specialmente. Una domanda classica nella sociologia politica è: che cosa tiene insieme la società? Oggi la domanda si è spostata, e ci si chiede addirittura se di società, cioè di relazioni primarie spontanee, non imposte forzosamente, si possa ancora parlare. In effetti, poiché convivere pur bisogna, vale una relazione inversa: a legame sociale calante, costrizione crescente. Non è forse questa la nostra china costituzionale? Una china su cui troviamo, da un lato, per esempio, indifferenza per l´universalità dei diritti, per la separazione dei poteri, per il rispetto delle procedure e dei tempi delle decisioni, per i controlli, per la dialettica parlamentare, per la legalità, per l´indipendenza della funzione giudiziaria: indifferenza, in breve, per ciò qualifica come "liberale" una democrazia; sostegno, dall´altro, alle misure energiche, alla concentrazione e alla personalizzazione del potere, alla democrazia d´investitura, all´antiparlamentarismo, al fare per il fare, al decidere per il decidere: in breve, a ciò che qualifica invece come "autoritaria" la democrazia.
La sintesi potrebbe essere la frase pronunciata da un deputato socialista, all´epoca delle nazionalizzazioni decise dal governo Mitterrand e osteggiate dall´opposizione di destra, che aveva promosso un ricorso al Conseil constitutionnel (più o meno, la nostra Corte costituzionale): «Voi avete giuridicamente torto, perché noi abbiamo politicamente ragione». In altri termini, il vostro richiamo alla Costituzione vale nulla, perché noi abbiamo i voti. Quella frase fece grande scandalo, chi l´aveva pronunciata dovette rimangiarsela. Ma si esprime lo stesso concetto dicendo: la gente ha votato, ben sapendo chi votava, e questo basta; la forza del consenso rende nulla la forza del diritto; chi obbietta in nome della Costituzione è un patetico azzeccagarbugli che con codici e codicilli crede di fermare la marcia della nuova legittimità costituzionale. La Costituzione non ammette questo modo di ragionare. Non c´è consenso che possa giustificare la violazione delle "forme" e dei "limiti" ch´essa stabilisce (art. 1). Ma questa è legalità costituzionale. Pensare di sostenere una legalità traballante nella sua legittimità, invocando soltanto la legalità, è come volersi trarre dalle sabbie mobili aggrappandosi ai propri capelli. Chi vuol difendere la Costituzione deve accettare la sfida della legittimità e saper mostrare, anche attraverso i propri comportamenti, che la Costituzione non è un involucro ormai privo di valida sostanza, non è l´espressione o la copertura di un mondo senza futuro. Occorre far breccia in convinzioni collettive, là dove domina indifferenza, sfiducia, rassegnazione: i sentimenti qualunquistici, naturalmente orientati a esiti autoritari, di cui s´è detto. Se la crisi costituzionale è innanzitutto crisi di disfacimento sociale, è da qui che occorre ripartire. Si difende la Costituzione anche, e soprattutto, con politiche rivolte a promuovere solidarietà e sicurezza, legalità e trasparenza, istruzione e cultura, fiducia e progetto: in una parola, legame sociale. Se non andiamo alla radice, per colmarlo, dello scarto tra legalità e legittimità, ci possiamo attendere uno svolgimento tragico del conflitto tra una legalità illegittima e una legittimità illegale: tragico nel senso più proprio e classico della parola. Ci si dovrà ritornare.

Gustavo Zagrebelsky da La Repubblica 22 luglio 2008

Auguri per il Ramadan - comunicato stampa

Art. 8 della Costituzione della Repubblica Italiana

"Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.
Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze"

Art. 19 della Costituzione della repubblica Italiana

"Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume."


ALLE DONNE E AGLI UOMINI
DI FEDE MUSULMANA

ANCHE QUEST’ANNO AUGURIAMO
BUON RAMADAN

Speriamo e auguriamo
che nel 2008
finalmente
dopo anni di attesa
di impegno
di promesse
la comunità musulmana di Cesena
come e’ suo diritto
riconosciuto dalla Costituzione
possa avere
un luogo degno e adatto
per incontrarsi
e per pregare

Gruppo “Convivialità delle Culture” - Cesena
Gruppo “G. Falcone e P. Borsellino” - Cesena
Gruppo “Ricerca e Confronti”- Cesena
Associazione culturale “Il Castello” - Sorrivoli
Università della Pace “Ernesto Balducci”- Cesena
Comitato Cesenate per la Costituzione


Cesena, tempo di Ramadan, settembre 2008

La riforma nascosta della giustizia in quel patto tacito Ghedini - Violante


È L'UOVO di Colombo. Che cos'è un pubblico ministero senza polizia giudiziaria? Più o meno, niente. Un corpo senza braccia. Una toga nera che cammina. E allora se, nella scelta e nell'avvio dell'esercizio dell'azione penale, si toglie all'accusa la collaborazione della polizia; se si attribuiscono alla polizia i poteri che oggi sono del pubblico ministero (dalle notizie di reato alla direzione delle indagini), il gioco è fatto.

Quel che oggi appare una faticosa (e ardua) ascesa alle vette di una riforma costituzionale diventa, più o meno, una quieta passeggiata in riva al mare. Un percorso legislativo ordinario e svelto che, senza troppo clamore e piazze Navona, altera gli equilibri costituzionali più di quanto possa fare una risicatissima riscrittura della Costituzione.

La "riforma della giustizia" (o meglio lo scontro ideologico tra politica e magistratura) ha già un suo compromesso concreto, rapidamente realizzabile e già per buona parte condiviso. L'abolizione di qualche parola in due articoli del codice di procedura penale consente alla politica di ottenere, senza "guerre di religione", quel che dai tempi della Bicamerale è apparso alla politica una chimera: il controllo dell'azione penale e l'attenuazione dei poteri del pubblico ministero a vantaggio dell'esecutivo.

Come si sa, la riforma ha un'agenda autunnale già annunciata dal ministro della Giustizia Alfano: riforma del processo penale e civile e, poi, interventi costituzionali che muteranno il ruolo del Csm, l'obbligatorietà dell'azione penale, la separazione delle carriere. E' un'agenda, per la prima parte (riforma del processo), condivisa anche dall'opposizione che vuole rendere concreta la ragionevole durata del processo e più efficiente (finalmente efficiente) la macchina della giustizia. Ma, a saper ascoltare Luciano Violante e Niccolò Ghedini - le vere "teste d'uovo" protagoniste di questo minimalismo al tempo stesso riformista e rivoluzionario - è sufficiente già il riordino del processo penale per raccogliere qualche desideratissimo risultato. L'accordo non è segreto. Il compromesso è lì alla luce del sole e basta soltanto unire i punti per vederne il disegno.

Chiedono a Violante della separazione delle carriere (2 settembre, il Giornale). Curiosamente, prima di dirsi contrario alla separazione, Violante ragiona a lungo (in apparenza c'entra come il cavolo a merenda) sulla "confusione tra attività di polizia e attività del pm". Per concludere: "Il ruolo della polizia è stato schiacciato dal ruolo del pm. Bisogna tornare ai principi della Costituzione: la polizia da una parte e il pm dall'altra, ciascuno con proprie attribuzioni". E' una stravaganza il richiamo alla Carta. Come se le "attribuzioni" delle polizie fossero prescritte dalla Costituzione che, al contrario, all'articolo 109 recita: "L'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria".

A stretto giro (3 settembre, il Giornale), risponde a Violante Niccolò Ghedini. Tecnico sapientissimo, di fatto il Guardasigilli, scorge il varco. Dice: "Sono d'accordo sulla necessità di valorizzare il lavoro della polizia giudiziaria rendendolo più autonomo da quello del pm. L'accordo si può trovare in tempi brevi". Si può immaginare che l'avvocato e consigliere di Berlusconi sfoggi uno dei suoi sorrisi, quando si lancia nella difesa dell'obbligarietà dell'azione penale ("La manterrei"). Ghedini sa che, liberata la polizia giudiziaria dalla dipendenza al pm, non vale più la pena occuparsi dell'obbligatorietà dell'azione penale che sarebbe già fritta. Vediamo perché.

Oggi (art. 327 del codice di procedura penale) "il pubblico ministero dirige le indagini e dispone direttamente della polizia giudiziaria che, anche dopo la comunicazione della notizia di reato, continua a svolgere attività di propria iniziativa". Se si cancellano le parole in corsivo la norma diventa: "La polizia giudiziaria, anche dopo la comunicazione della notizia di reato, svolge attività di propria iniziativa". Il pubblico ministero perde la direzione delle indagini mentre la polizia guadagna la sua libertà. Come chiunque comprende, la variazione non è neutra e senza conseguenze. Il pubblico ministero è indipendente dal potere politico e "soggetto soltanto alla legge", mentre il poliziotto è un funzionario dello Stato che risponde agli ordini di un ministro e alle scelte politiche del governo. Una seconda "correzione" accentua la discrezionalità della polizia e la distanza dal pm.

Articolo 347 del codice di procedura di penale: "Acquisita la notizia di reato, la polizia giudiziaria, senza ritardo, riferisce al pubblico ministero". Se cade il corsivo ("Acquisita la notizia di reato, la polizia giudiziaria riferisce al pubblico ministero") l'intero gioco investigativo finisce nelle mani delle forze dell'ordine. Lo scenario diventa questo. Le polizie raccolgono la notizia di reato; fanno i primi accertamenti; ne possono valutare protagonisti, modalità e conseguenze. Informare la catena gerarchica e il governo. Decidere quando e come informare il pubblico ministero.

Non si può escludere che, nelle occasioni meno gradite o imbarazzanti per il potere politico o economico, la comunicazione possa avvenire fuori tempo massimo quando i buoi sono già scappati dalla stalla o quando diventa difficile raccogliere coerenti e tempestive fonti di prova per accertare reato e responsabilità. (Naturalmente sempre possono esserci pressioni sulla polizia giudiziaria per "aggiustare" le indagini, ma la dipendenza dal pubblico ministero protegge i funzionari dello Stato dalle gerarchie e dai governi).

Come si può comprendere, grazie a poche parole soppresse in un codice, giustizia e processo muterebbero. Sarebbe il governo a decidere, attraverso le polizie, quale fenomeno criminale aggredire e quali affari penali indagare. La separazione della polizia giudiziaria dal pubblico ministero risolve all'origine molte questioni cui la politica non ha trovato soluzione nel corso del tempo. L'obbligatorietà dell'azione penale sarebbe sterilizzata.

Oggi nella disponibilità delle procure, l'inizio dell'azione penale viene consegnata al governo che può selezionare quando, come e contro chi esercitare l'azione, attraverso la notizia di reato raccolta dalla polizia giudiziaria e i tempi di comunicazione alle procure. L'indipendenza del pubblico ministero sarebbe marginalizzata. Decretata la sua autonomia nelle indagini, sarà il poliziotto a decidere del lavoro soltanto formalmente indipendente del magistrato trasformando il pubblico ministero in "avvocato della polizia".

Un "avvocato" che mette le sue competenze tecniche al servizio di un'accusa preconfezionata in questure e caserme che lavorano alle dipendenze e con gli input del governo. La soluzione può essere gradita a larga parte del mondo politico (è un errore sottovalutare l'influenza e le connessioni di Violante nell'opposizione e nelle istituzioni) e peraltro Silvio Berlusconi non ha mai fatto mistero di volerla ad ogni costo. Forse, l'avrà. Senza tanti ghirighori costituzionali, la quadra - come l'uovo di Colombo - è lì a portata di mano. In poche parole da cancellare con un tratto di penna.

Giuseppe D'avanzo Repubblica - 10 settembre 2008

mercoledì 10 settembre 2008

Berlusconi: "Napoli è libera dai rifiuti!!"

Art. 21 della Costituzione della Repubblica Italiana. "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". Vi riporto il video girato da un ragazzo di Napoli trovato sul youtube: un esempio di come ognuno di noi può opporsi all'ipocrisia ed alla disinformazione interessata di buona parte dei giornali e telegiornali...Si parla del caso di Napoli e dalla spazzatura che, a detta del Governo, sarebbe un problema risolto...infatti...

Un po' di formazione: conosciamo la nostra Costituzione...


Ciao a tutti! Ho trovato una sezione interessante del sito della Camera dei Deputati con una parte didattica dedicata alla Costituzione della Repubblica...clicca qui per andare ai contenuti...buona lettura!!

La pillola settimanale di Marco Travaglio...

Il video messaggio settimanale di Marco Travaglio...

Fascisti su Marte...


La "Bussola" dedicata alla banalizzazione del fascismo, ridotto a merchandising per turisti, a Rimini, ha prodotto molte reazioni. Di segno e contenuto diverso, hanno contribuito a precisare la fenomenologia nostalgica. Ne hanno, in particolare, allargato la geografia ben oltre Rimini. A partire dalla vicina Riccione, dove, mi è stato segnalato, da poco è stata restaurata e riaperta al pubblico Villa Mussolini. Proseguendo sul lungomare romagnolo, dove l'oggettistica fascista sembra diffusa, nelle vetrine e nei mercati, quanto l'iconografia del football.

Ma lo stesso avviene altrove, in punti diversi e distanti del paese. Per chiarire che la nostalgia non è un prodotto locale, circoscritto alle terre del duce. Il busto di Mussolini, in formato mignon, è stato avvistato - e segnalato - un po' dovunque, nella penisola. Da Nord a Sud, da Bolzano alla Sicilia, passando per la Liguria e la Campania. Nei mercati e nei mercatini di rione e di paese, nei minimarket lungo l'autostrada.

L'ampiezza del fenomeno suggerisce l'esigenza di una domanda, evidentemente, altrettanto estesa. E in crescita, come ha rammentato un lettore che se ne intende. Il quale mi ha ragguagliato che Mussolini è venduto ormai quanto il Che, mentre Stalin è in caduta. Anche Hitler riscuote un certo interesse, visto che la sua immagine si incontra, con frequenza crescente, accanto a quella del duce. A differenza di quanto avviene in Germania, come ha sottolineato un altro lettore, il quale vi si reca almeno due volte l'anno per lavoro. A Monaco, Francoforte, Berlino, Colonia, scandisce, " Mai e poi mai sono imbattuto nell'immagine di Hitler".

Ma gli estimatori tedeschi del fuhrer possono sfogare e soddisfare la loro passione quando passano per l'Italia. Qui il tabù è stato infranto, se mai è esistito. Sicuramente, però, oggi le immagini del fascismo e perfino del nazismo circolano senza problemi e senza inibizioni. Alcuni mi hanno rimproverato - talora aspramente- per aver manifestato una certa sorpresa, al proposito. Io tanto naif da non aver percepito prima che il fascismo sia stato sdoganato, da tempo. Tuttavia, non è la rivalutazione del fascismo a spiazzarmi. Semmai, la sua banalizzazione. A ogni livello. Dai mercatini al Campidoglio. Dagli autogrill ai palazzi del governo.

Quel clima culturale che induce il sindaco di Roma - senza provare neppure un brivido - a ridurre le colpe del fascismo alle "sole" legge razziali. E il ministro della difesa a porre sullo stesso piano partigiani e repubblichini. Una guerra civile riletta con occhio equidistante. O equivicino. (Come ha denunciato il Presidente Napolitano). Gli antifascisti e i fascisti: portatori di eguali ragioni. E di eguali torti. Così, il male assoluto denunciato da Gianfranco Fini, per i suoi compagni di partito e di militanza, smette di essere tale. Diventa relativo. Limitato. L'unico male assoluto resta il comunismo. Un peccato originale che stigmatizza chiunque ne abbia avuto esperienza. Ieri, l'altro ieri, quando non importa. Comunisti e basta. Tanto più pericolosi se e quando rifiutano e condannano la loro tradizione ideologica.

Il fascismo invece no. E' parte della nostra biografia, della nostra memoria. Non un male assoluto, ma una malattia dell'infanzia. Come la varicella e il morbillo. Da cui si guarisce in fretta. Anzi, serve a crescere. L'Italia: una Repubblica e repubblichina al tempo stesso. Fondata, equamente, sull'antifascismo e sul fascismo.

Ecco: la banalità del "nostro" male rischia di renderlo inguaribile. Perché non si può curare una malattia che non è ritenuta tale. Ma viene percepita, al massimo, come un segno di stanchezza. E se la democrazia è stanca, in fondo, chissenefrega. Si riposi. Si prenda una pausa. Troppa democrazia, a volte, fa male.

Ilvo Diamanti La repubblica
(9 settembre 2008)

sabato 6 settembre 2008

8 settembre 1943: Armistizio...tratto dal film "Tutti a casa" di Luigi Comencini (1960)...

Il caso Alitalia...un po' di informazione...

Una bella analisi di Marco Travaglio sulle ultime vicende Alitalia...se potete diffondete e linkate il video ai vostri contatti...la (dis)informazione sul questo caso è stata (ed è) totale...è un po' lungo ma ne vale la pena...

La Costituzione "per" Norberto Bobbio...


Quali sono i presupposti culturali della nostra Costituzione? Ecco le "idee" di Norberto Bobbio

L’idea liberale


L’idea fondamentale del liberalismo è che l’individuo ha un valore assoluto, indipendentemente dalla società e dallo Stato di cui fa parte, e che pertanto lo Stato è il prodotto di un libero accordo tra gli individui (contrattualismo). Il liberalismo nasce dalla crisi della concezione autoritaria e gerarchica della società, propria del pensiero medioevale. Si afferma in un primo tempo nel corso delle guerre di religione - soprattutto per opera delle sette non conformiste che affermano i diritti della coscienza individuale contro la supremazia delle Chiese organizzate e contro gli Stati confessionali -, come liberalismo religioso, cioè come affermazione della libertà religiosa, ovvero della libertà di credere secondo coscienza e non per imposizione. Nell’organizzazione della società, il frutto più alto del liberalismo religioso è il principio di tolleranza, secondo cui nessuno deve essere perseguitato a causa della propria professione di fede. Il liberalismo si sviluppa poi nelle idee dei primi teorici dell’economia e in genere nei pensatori illuministi come liberalismo economico, cioè come affermazione del diritto dell’individuo ad essere affrancato dai vincoli alla disposizione e alla circolazione dei beni d’origine feudale, a cui si erano sovrapposti, durante il periodo della monarchia assoluta, i vincoli derivanti dal protezionismo statale (mercantilismo), e a svolgere la propria iniziativa nel campo dell’economia, secondo le proprie capacità e non seguendo altra regola che quella del proprio interesse individuale sino al limite in cui questo non contrasta con l’interesse altrui. Alla concezione liberale della vita economica è connessa l’idea di concorrenza e quindi della lotta disciplinata dal diritto, come metodo di convivenza e pungolo del progresso sociale. L’idea liberale trova infine la sua conclusione nel liberalismo politico, la cui patria è l’Inghilterra, ossia una determinata concezione dello Stato, nella concezione appunto dello Stato Liberale: secondo questa concezione, il fine dello Stato non è già un fine positivo, di provvedere, ad esempio, al bene comune, di rendere i sudditi moralmente migliori, o più saggi, o più felici, o più ricchi, ma è il fine negativo di rimuovere gli ostacoli che impediscono al cittadino di migliorare moralmente, di diventare più saggio, più felice, più ricco, secondo le proprie capacità e a proprio talento.
Contro lo Stato assoluto, in cui il sovrano, ha un potere senza limiti giuridici, cioè legibus solutus, lo Stato liberale è uno Stato limitato, cioè uno Stato in sui si tende ad eliminare il più possibile gli abusi del potere, e quindi a garantire la libertà dei cittadini dall’ingerenza dei pubblici poteri. Questi limiti derivano, in sede di principio, dai compiti ristretti che vengono attribuiti allo Stato, inteso come arbitro nella gara degli interessi individuali e non come promotore esso stesso di interessi comuni. Rispetto alla struttura giuridica i limiti del potere dello Stato vengono posti mediante due istituzioni caratteristiche: anzitutto mediante il riconoscimento che esistono diritti naturali dell’individuo anteriori al sorgere dello Stato, che lo Stato non può violare, anzi deve garantire nel loro libero esercizio (dottrina del diritto naturale); in secondo luogo, mediante l’organizzazione delle funzioni principali dello Stato, in modo che esse non vengano esercitate dalla stessa persona o dallo stesso organo (come accadeva nelle monarchie assolute), ma da diverse persone o organi in uno o altro modo cooperanti (dottrina della separazione e dell’equilibrio dei poteri).


L’idea democratica

Mentre il liberalismo ha per principio ispiratore la libertà individuale, il principio ispiratore dell’idea democratica è l’eguaglianza. Liberalismo e democrazia non sempre si possono facilmente distinguere, perché rappresentano due momenti della stessa lotta contro lo Stato assoluto. Il quale, come Stato senza limiti, offende la libertà, ma, come Stato fondato sul rango, sui privilegi di ceto, sulla distinzione dei cittadini in diversi stati con diversi diritti e doveri, offende l’eguaglianza. Ciononostante sono due momenti distinti, e spesso nella storia costituzionale, appaiono contrapposti, anche se oggi, essendo confluiti l’uno nell’altro, hanno dato origine a regimi che sono insieme liberali e democratici.

Partendo dall’idea dell’uguaglianza, la teoria democratica afferma che il potere deve appartenere non ad uno solo o a pochi, ma a tutti i cittadini. Nonostante i molteplici significati assunti nel linguaggio politico contemporaneo dal termine “democrazia”, vi è un concetto fondamentale a tutti comune, quello di sovranità popolare. Secondo la teoria democratica, la sovranità, cioè il potere di dettar leggi e di farle eseguire, risiede nel popolo: se il popolo può trasmettere questo potere, o meglio l’esercizio di questo potere, temporaneamente ad altri, per esempio ai suoi rappresentanti, come accade nel sistema parlamentare, non può rinunciarvi e alienarlo per sempre. A questa stregua, mentre il liberalismo tende a proteggere essenzialmente i diritti civili, per esempio la libertà di pensiero e di stampa, di riunione e di associazione, la dottrina democratica ha come suo fine principale la difesa dei diritti politici, con la quale espressione si intendono i diritti di partecipare direttamente o indirettamente al governo della cosa pubblica. Uno Stato è tanto più democratico quanto più numerose sono le categorie dei cittadini a cui estende i diritti politici, sino al limite del suffragio universale, cioè dell’attribuzione dei diritti politici a tutti i cittadini con la sola limitazione dell’età, e quindi prescindendo da ogni differenza riguardante la ricchezza, la cultura o il sesso. Il che spiega, tra l’altro, come vi possa esser un divario tra uno Stato liberale puro e uno Stato democratico puro: uno Stato in cui fossero riconosciuti i principali diritti civili, ma il suffragio fosse ristretto, come accadeva in Italia sino al 1912, poteva dirsi liberale, ma non democratico; d’altra parte, uno Stato a suffragio universale può, servendosi degli stessi congegni della democrazia, instaurare un regime illiberale, come è accaduto in Germania nel 1933, quando il nazismo si impadronì del potere attraverso le elezioni.

Strettamente connessi con l’attribuzione dei diritti politici sono altri due istituti che caratterizzano lo Stato democratico: il sistema elettivo, che si differenzia dalla ereditarietà e della cooptazione, e in tal guisa permette l’esercizio del potere dal basso, o dello Stato fondato sul consenso; e il principio maggioritario, secondo cui le deliberazioni degli organi collegiali debbono essere prese a maggioranza, dal quale deriva il sistema cosiddetto del governo di maggioranza, che si distingue tanto da quello autocratico del governo di minoranza o di uno solo, quanto da quello, del resto irrealizzabile, dell’umanità. Questi diversi principi hanno contribuito alla formazione di una particolare forma di governo, che è andata attuandosi in Europa, con alterne vicende, via via che crollavano le antiche monarchie assolute, cioè alla formazione del regime parlamentare.


L’idea socialista

Così come l’ideale di uguaglianza politica e giuridica ha via via integrato quello liberale della libertà individuale, così l’ideale dell’uguaglianza sociale ed economica, propugnato dal socialismo, si è sovrapposto e talvolta contrapposto, nel corso dell’ultimo secolo, a quello democratico. Anche il socialismo muove da una aspirazione egualitaria: ma considera l’eguaglianza politica e giuridica, promossa dalla dottrina democratica, un’eguaglianza puramente formale. Che il potere politico si diviso fra tutti i cittadini e che tutti i cittadini siano uguali di fronte alla legge, è, per la dottrina socialista, una conquista necessaria ma non sufficiente. Sarebbe sufficiente se l’unica forma di potere, di cui i detentori potessero abusare per opprimere gli altri, fosse il potere politico. Ma il potere politico è molto spesso uno strumento di dominio nelle mani di coloro che detengono il potere economico: una tesi costante delle dottrine socialiste, nelle differenti e talora opposte correnti a cui hanno dato luogo, è che il potere politico è al servizio del potere economico, perciò la causa delle ingiustizie sociali che generano il disordine delle società non è tanto la differenza tra governanti e governati, quanto quella fra ricchi e poveri, di cui la prima è uno specchio generalmente fedele. Pertanto il socialismo ritiene che, per estirpare alle radici il disordine sociale, occorra instaurare un ordine in cui sia combattuta non solo la diseguaglianza politica, ma anche quella economica.

Il mezzo che il socialismo propugna per eliminare la diseguaglianza economica è l’abolizione, in tutto o in parte, della proprietà individuale, e l’instaurazione di un regime sociale fondato, in tutto o in parte, sulla proprietà collettiva. Il socialismo è sempre una forma, più o meno ampia, di collettivismo. Distinguendo la proprietà dei mezzi di produzione (per esempio la terra) dalla proprietà dei prodotti, si possono avere tre forme diverse di socialismo secondo che l’abolizione della proprietà individuale cada: 1) sui mezzi di produzione; 2) sui prodotti; 3) contemporaneamente sui mezzi di produzione e sui prodotti (collettivismo integrale). Per quel che riguarda i titolari della proprietà collettiva, essi possono essere, essi possono essere tanto piccole o grandi associazioni di lavoratori (come le cooperative, o le fattorie collettive dell’URSS), e in questo caso si parla di socializzazione della proprietà individuale, quanto gli enti pubblici o lo Stato, e in questo caso si parla di statalizzazione o nazionalizzazione (soprattutto delle grandi imprese).

La trasformazione della proprietà implica pure una profonda trasformazione nella funzione dello Stato. Mentre lo Stato liberale si astiene dall’intervenire nei rapporti economici, ed è, come si dice, neutrale, lo Stato socialista considera uno dei suoi principali compiti quello i intervenire per indirizzare le attività economiche verso certi fini di interesse generale, ora limitandosi a proteggere i più deboli economicamente con varie forme di assistenza (Stato assistenziale, nella espressione inglese Welfare State, cioè Stato-benessere), ora dirigendo, attraverso una pianificazione parziale o totale, l’economia del paese (Stato collettivista). In questo senso lo Stato socialista si oppone allo Stato liberale.

Rispetto alle idee sulla organizzazione dello Stato, dunque, mentre democrazie e socialismo possono collaborare ed integrarsi, onde lo forme molteplici di democrazia sociale del mondo contemporaneo, non sembra che eguale collaborazione possa avverarsi tra socialismo e liberalismo. Sino ad ora, almeno, nella misura in cui lo Stato socialista avanza, la dottrina dello Stato liberale declina. Il liberalismo ha una concezione negativa dello Stato, il socialismo una concezione positiva; là lo Stato è un regolatore delle attività economiche altrui, qua è esso stesso il protagonista dello sviluppo economico della nazione; l’uno si propone di esser semplice custode o guar-diano del benessere individuale, l’altro pretende di essere il promotore dell’interesse comune.

Il socialismo è dottrina antica: ma solo nel secolo scorso è passato da una fase utopistica (che va da Platone a Campanella, da Morelly a Fourier), cioè di ideazione più o meno fantastica di una società socialista, alla fase realistica, per opera soprattutto di Marx e di Engels, cioè alla fase di promovimento e organizzazione di movimenti politici in favore del proletariato (i partiti socialisti). Questi movimenti hanno assunto prevalentemente due indirizzi, che si susseguono con alterna vicenda nella storia ormai secolare del socialismo: l’indirizzo riformistico, che tende all’attuazione dello Stato socialista attraverso graduali riforme da ottenersi con metodo democratico e servendosi degli istituti caratteristici del governo parlamentare; l’indirizzo rivoluzionario, per il quale la società socialista non può essere raggiunta se non attraverso lo scardinamento della società capitalista borghese, la distruzione dello Stato di classe, e la conseguente sostituzione della dittatura del proletariato alla dittatura della borghesia. Le manifestazioni storicamente più importanti di questi due indirizzi sono il labourismo, che ha provocato radicali trasformazioni della società e dello Stato in Inghilterra e in alcuni Stati dell’Europa del Nord, e il comunismo, che ha condotto il movimento operaio alla conquista del potere in Russia, con la Rivoluzione d’Ottobre (1917), e dopo la seconda guerra mondiale, per tacere degli Stati minori dell’Europa orientali, in Cina, alla fine della lunga guerra civile e nazionale (1948).


Il cristianesimo sociale

Quando ormai la contesa tra gli ideali liberali e socialisti era divampata, si venne formando, verso la metà del secolo scorso, una nuova dottrina politica e sociale, che prese posizione, con un programma di conciliazione tra i due contendenti, ed ha avuto crescente influsso, in alcuni Stati, sulla vita politica e sociale, soprattutto negli ultimi decenni: la dottrina sociale della Chiesa cattolica, nota col nome di cristianesimo sociale.

Del liberalismo essa rifiuta il presupposto individualistico e la libertà di concorrenza, che condurrebbero ad una lotta di tutti contro tutti, ove il più povero è destinato a soccombere. Ma pure accettando, del socialismo, l’esigenza di proteggere le classi più umili contro quelle dei più potenti, cioè l’impostazione di quella che si chiamò la “questione sociale”, rifiuta energicamente la tesi socialista dell’abolizione della proprietà privata. Considerando la proprietà come un diritto naturale, cioè come un diritto senza il quale l’uomo non può sviluppare appieno la propria personalità, la dottrina del cristianesimo sociale aspira, anziché alla sua soppressione, alla sua più ampia diffusione, in modo che possano diventare proprietari dei mezzi di produzione, attraverso forme che vanno dalla frantumazione della grande proprietà agricola alla partecipazione azionaria degli operai alle grandi imprese, il maggior numero di individui. Di fronte all’obiezione messa innanzi dai socialisti, che la proprietà individuale è il maggior fomite di discordia, essa risponde distinguendo il diritto di proprietà, che è privato, dall’uso di essa, che è sociale; e da questa distinzione trae la conseguenza che, se non si può negare all’individuo di avere diritti individuali sui beni economici, gli si può precludere, non solo con il richiamo al precetto evangelico della carità, ma ricorrendo alla regolamentazione coattiva dello Stato, un uso di questi beni che sia nocivo alla società e contrario al bene comune. Con la dottrina del cristianesimo sociale, la proprietà individuale viene riconosciuta, anzi estesa nella sua titolarità, seppur temperata nel suo esercizio.

Anche di fronte al problema dello Stato, il cristianesimo sociale rifugge dagli estremi della concezione negativa dei liberali e di quella considerata troppo positiva dei socialisti. Sin dall’inizio ammise, contro il liberalismo, che lo Stato doveva intervenire nella vita economica soprattutto per proteggere le classi più povere; sostenne contro lo Stato agnostico lo Stato dirigista, e fu fautore e promotore di legislazione sociale. Ma attenuò lo statalismo che giudicava eccessivo dei socialisti, sostenendo la necessità che si formassero fra l’individuo e lo Stato libere associazioni a scopo economico e sociale, le quali permettessero, da un lato, il superamento dell’individualismo l’attuazione dell’idea solidaristica, ed evitassero, dall’altro, il pericolo di cadere nel livellamento collettivistico. Accarezzò l’idea che, favorendo lo sviluppo di associazioni intermedie, si venissero costituendo associazioni di mestiere, composte sia da lavoratori che da imprenditori, che furono dette corporazioni, dalle quali ci si aspettava che la lotta di classe - che il liberalismo non voleva soffocata, perché causa di progresso economico e di elevazione dei ceti popolari, ma giuridicamente regolata, e il socialismo voleva eliminata alle radici mirando ad una società senza classi - fosse conciliata in una mutua comprensione dei rappresentanti del lavoro e del capitale, sottoposti alla stessa legge della morale cristiana.

Norberto Bobbio